GROSSETO – Un’istantanea del commercio in Toscana, settore che contribuisce per il 10% al fatturato regionale, con oltre 28 mila imprese e che si è trasformato nel tempo, sia per il progressivo aumento delle dimensioni medie degli esercizi che per la diffusione di nuovi modi e modelli di distribuzione e di vendita online. È quanto emerge dal rapporto Irpet.
Articolazione, diffusione, rilevanza per il sistema economico regionale. Sono gli elementi che caratterizzano il commercio al dettaglio in Toscana e che derivano dall’importanza del turismo e dall’esistenza di molti centri urbani anche di piccole dimensioni. Un settore tuttavia vulnerabile (maggioranza delle imprese piccole o piccolissime, basso valore aggiunto sul fatturato, bassi stipendi), alle prese con fenomeni di concentrazione territoriale dovuti da un lato al consolidamento della presenza dei grandi spazi commerciali, alimentari e non, nelle aree maggiormente urbanizzate della regione, dall’altro alla progressiva contrazione della presenza commerciale nelle aree periferiche e alla maggiore diffusione di formati piccoli e medi nei principali centri urbani. Ma, al tempo stesso, capace di attutire meglio di altri settori l’impatto della pandemia, ampliando i canali di vendita e prevedendo una riorganizzazione dei processi e degli spazi di lavoro.
28mila imprese e oltre 33mila unità locali: il commercio in Toscana, nonostante la diffusione dei grandi formati, è fatto soprattutto di imprese piccole e piccolissime, il 66% delle quali operano nel settore non alimentare e, di queste, il 25% sono negozi di abbigliamento, l’8% cartolerie, il 6% calzature e ferramenta. Gli esercizi alimentari sono circa un quarto del totale: il 26% di questi vende prodotti legati al tabacco, il 17% sono macellerie e il 12% negozi di ortofrutta. I non specializzati sono poco meno del 10% del totale. In termini di addetti copre tutta la regione e si concentra nelle principali aree urbane ed in quelle a maggior vocazione turistica dove, sebbene la presenza della GDO sia consistente, il piccolo commercio prevale per sfruttare la stagionalità dei flussi.
Nelle città oltre alla quantità di esercizi commerciali diventa importante anche la loro qualità, per la presenza di consumatori in grado di sostenere mediamente un livello di spesa più alto. Situazione opposta nelle aree industriali, dove i piccoli negozi sono più rari in quanto poco attrattive per i turisti e nelle quali la presenza di realtà più grandi è più marcata. Maggiori le difficoltà nelle arre interne appenniniche a causa della riduzione demografica.
Il commercio al dettaglio incide sull’economia regionale per il 9% in termini di addetti e di imprese e per il 10% in termini di fatturato. Il valore aggiunto sul totale del fatturato è del 19% e viene mediamente destinato per il 42% al pagamento di salari e stipendi. Il commercio al dettaglio alimentare ha il più basso valore aggiunto per addetto ed i salari più bassi per lavoratore dipendente.
I lavoratori indipendenti sono il 36% e due terzi degli occupati nel commercio al dettaglio è di genere femminile. Sono i giovani (il 34% ha tra i 15 e i 29 anni) e gli over 50 (34%) ad essere i maggiori impiegati nel settore e prevalgono gli italiani (87%). Un dipendente su 3 ha un titolo della scuola secondaria di I grado, il 47% è diplomato. Lo stipendio medio annuo è circa 22mila euro, -14% rispetto a quello medio calcolato sul complesso dell’economia e -25% rispetto alla manifattura. Nel commercio alimentare il salario medio supera di poco i 17mila euro annui, nella GDO e nel commercio non alimentare supera i 22mila euro.
Nel confronto con Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto la Toscana ha la quota più alta di addetti nel commercio (ingrosso e dettaglio), il 19,9%. Il contributo al valore aggiunto più alto è della Lombardia 18,5% (Toscana 16,8%). In Toscana ogni 1000 residenti ci sono circa 36 addetti al commercio al dettaglio, dato superiore alla media nazionale e alle altre tre regioni. Toscana prima per strutture di piccole dimensioni (meno di 50mq) e ultima per quelle molto grandi (oltre i 5000mq). Ultima anche per numero di minimercati e supermercati, per superficie di vendita totale, per numero e superficie di vendita per 1000 abitanti. Lo stesso dicasi per gli ipermercati. Situazione opposta invece per i grandi magazzini (non solo generi alimentari), dove è inferiore solo alla Lombardia.
Dal 2007 al 2019 le imprese del settore sono diminuite del 17%, molto più degli addetti (-4%). Motivo principale della differenza è la comparsa e la rapida diffusione, a partire dal decennio 1990-2000 e prima decade 2000, dei centri commerciali (accompagnata da un aumento della dimensione media degli esercizi), strutture che diventano anche luogo di intrattenimento, integrando l’offerta commerciale con servizi ed attività complementari (punti di ristorazione, artigianato di servizio, agenzie ecc.). Gli esercizi più piccoli (fino a 2 addetti), pur continuando a rappresentare tre quarti delle unità del settore, diminuiscono di 6.000 unità (-19,4%), così come quelli da 3 a 5 addetti (-16,2%). Crescono invece quelli tra i 20 e i 50 addetti (+26,8%) e le strutture più grandi, tra i 50 e i 250 addetti (+24,8%). Calano quelle molto grandi, superiori ai 250 addetti.
Le province col numero più alto di unità locali per abitante sono Grosseto e Livorno, seguono Siena, Massa Carrara, Lucca e Arezzo. In generale dalle 11 attività/1000 abitanti del 2007 si passa alle 9 del 2019. Le uniche province dove, nello stesso periodo, è aumentato il numero di addetti sono Firenze e Prato mentre in tutte è cresciuta la dimensione media aziendale. In termini di presenza di servizi commerciali in rapporto alla popolazione, le aree più turistiche, i sistemi agrituristici e quelli della costa hanno la maggior diffusione. Sempre nel periodo 2007-19 nelle aree interne le imprese diminuiscono del 25% (e -14% di addetti), nei sistemi agrituristici e in quelli balneari del 19%: qui la diminuzione più contenuta degli addetti indica non solo una minore diffusione di questo settore ma anche una maggiore presenza dei formati più grandi. Nelle aree urbane, con la diffusione dei formati di dimensioni maggiori, la perdita di unità locali è accompagnata da una sostanziale tenuta dei livelli occupazionali.
E’ il piccolo commercio alimentare, nel periodo 2007-19, a subire le maggiori perdite, in termini di addetti e di unità locali, rispettivamente -18% e -14%. Segno opposto per la GDO: +30% di unità locali, +10,3% addetti. Le aree interne, nel periodo di riferimento, sono quelle che hanno subito la contrazione più consistente (in linea con il trend della popolazione): -25% di unità locali e -14% di addetti con leggero aumento delle dimensioni medie degli esercizi. Riduzione anche per aree rurali e costa, parzialmente controbilanciata dalle nuove aperture della GDO. Nelle città aumenta la GDO a danno del piccolo commercio, alimentare e non.
Analizzando la dinamica riferita al periodo pandemico, attraverso i dati su iscrizioni e cancellazioni al Registro delle Imprese, nel periodo 2019-21 le imprese sono diminuite del 5%, gli addetti nel commercio al dettaglio del 2,5%. La perdita maggiore nelle città, -5,7%. Dinamica opposta nelle aree interne, addetti +3,3% e nei sistemi balneari, +2,3%.
L’indagine Irpet stima infine l’impatto dell’aumento dei costi energetici sul settore, ipotizzando in media per ogni impresa un incremento di circa 16mila euro (54mila nel caso di quelle manifatturiere), per quelle del commercio al dettaglio la somma si abbassa a quasi 14mila euro, mettendo in questo modo a rischio il 5% delle imprese totali (circa 2000).