MO YAN
SORGO ROSSO
EINAUDI, TORINO, (1982) 1997, pp. 483
La guerra in Ucraina non accenna a volgersi verso una trattativa di pace, mentre le donne curde ed iraniane continuano a lottare per la libertà e la vita, nonostante il silenzio da cui sono circondate. Parliamo di un libro che parla di un’altra guerra, quella per la sopravvivenza e per l’emancipazione del lavoro.
Ho una modesta conoscenza della letteratura cinese (qualche traduzione e le poesie di Mao, tradotte da Fortini) per dare un giudizio, ma la struttura di questo romanzo mi sembra molto occidentale e novecentesca. Ad enumerare il numero delle emergenze narrative che ho registrato nella mia copia del romanzo mi è piaciuto molto. L’autore, nato da una famiglia di contadini, di fatto autodidatta, che si è emancipato nel lungo lavoro al Dipartimento culturale dell’esercito cinese, ha ricevuto il premio Nobel per la letteratura nel 2012. “Sorgo rosso” è il suo primo romanzo, pubblicato in varie parti.
Rimane la sua opera principale. Dalle prime due parti è stato tratto il film omonimo del 1987, che ha vinto l’Orso d’oro al Festival di Berlino. Quanto al genere letterario è stato detto che si tratta di un romanzo storico, ma la critica anche ha parlato di “epica” e di “saga familiare”: in effetti la narrazione riguarda circa 40 anni di storia cinese dal 1939 (e gli anni precedenti) al 1979 (e gli anni seguenti). Come si vede la limitazione temporale è incerta. Si narra di tre generazioni. Ci sono miti e leggende antiche e costruite sugli avvenimenti raccontati. Quando si ha a che fare con i miti della continuità tra le generazioni , siamo di fronte alla natura epica della narrazione. Quindi la struttura è trans-genere e dunque allegorica. E’ una storia ambientata in una remota provincia cinese e non racconta di eroi epici, ma di contadini che cercano il loro riscatto: la “canaglia” a cui Mao cercò di dare una risposta sociale e politica con dubbi risultati, se si guarda al risultato odierno. Il vero costruttore della Cina contemporanea è Teng Siao Ping, l’esponente della destra del Partito Comunista Cinese, che fu sempre avversato da Mao, il quale rimane – anche se solo formalmente – il padre della patria, analogamente a quanto è successo a Lenin in Russia.
La storia procede tra continui flashback e narra di un ragazzo Yu Zhan’ao, orfano di padre cresciuto in fretta, dell’ incontro con la bella Dai Fengliang, costretta ad un matrimonio infelice con il figlio lebbroso di un ricco distillatore del vino di sorgo, rosso come il sangue. Essi lottano disperatamente contro l’invasione giapponese. Yu Zhan’ao è spinto a diventare assassino, brigante e guerriero, sempre in lotta contro tutti. Si troverà a far fronte alle insidie dell’autorità costituita, nelle vesti dello scaltro capo distretto Cao Mengjiu, a combattere la crudeltà degli spietati invasori venuti da una terra lontana per portare violenza ed oppressione, ed a destreggiarsi in mezzo ai combattenti comunisti e nazionalisti, in lotta tra loro e contro l’invasore. La speranza dei contadini, di cui il romanzo racconta, sono state tradite e il “sorgo rosso”, che gli da il titolo, è diventato un pallido “ibrido” nel capitolo finale in cui l’autore torna a casa, al villaggio natale. Tutti hanno tradito la speranza di questi contadini, chi prima e chi dopo.
Le antiche autorità imperiali, i collaborazionisti con gli invasori giapponesi, i falsi patrioti del Quomintang e gli stessi comunisti dell’Armata Rossa, anche se essi sono tra le poche figure positive del romanzo, come il luogotenente Reng, che muore troppo presto. Anche l’esperienza della comune contadina è ricostruita drammaticamente. E’ l’illusione su cui si regge ancora il potere del Partito Comunista Cinese, cioè che difenda ancora i diritti dei contadini, insieme ai privilegiati che ha prodotto con l’introduzione di ampie zone di economia di mercato, un ceto medio di 400.000 persone (numero comunque ragguardevole su un miliardo e mezzo di cinesi). Dicevo che la struttura del romanzo è novecentesca: la vicenda non si svolge in un unico arco lineare dall’inizio alla fine, ma è un rincorrersi di avvenimenti, annunciati, descritti e ricordati che oscillano dal presente, al passato, al futuro senza apparente ragione. I fatti raccontati sembrano rappresentare la fregatura degli ultimi, storicamente onnipresente, che è nel destino dei contadini cinesi, il cui tenore di vita miserabile non cambia nonostante i cambiamenti di regime politico. E’ un’ipotesi che dovremmo definire senza speranza e quindi reazionaria, se non fosse una continua allegoria del destino umano, la cui miseria almeno fino ad oggi non ha trovato alcun riscatto.