MARCELLO POLVANI
“PER ME … E’ STATO IL ’68. RACCONTO DI UNA MUTAZIONE”
INNOCENTI EDITORE, GROSSETO, 2022, pp. 159
Mentre continua una guerra che sembra interminabile e le donne curde e iraniane continuano a battersi per la libertà e la vita, propongo un libro che parla di un’altra guerra, quella che lo stato italiano e i suoi manovali della provocazione fascista mossero alla generazione che prese d’assalto il cielo. Fu una “guerra”, che oggi si vorrebbe dimenticata e che fece mille morti, due dei quali sono ricordati in queste pagine: Cesare Pardini e Franco Serantini. Proprio allora, con quella generazione, prese le mosse il movimento femminista in Italia
Il libro di un autore grossetano è apparentemente del genere della biografia, per essere precisi come scrive nella dotta prefazione Adolfo Turbanti “un racconto biografico di formazione”. Entrambi autore e prefatore sono vecchi amici e compagni come si usava dire allora seguendo le parole del Che, cioè che gli amici non possono essere che i compagni di lotta. “Più del ragionamento e delle parole stesse … contava l’amicizia e la certezza di poter continuare a essere insieme ‘nella lotta’” scrive Polvani. Per tanti versi siamo ancora “insieme nella lotta”. Come dice Marcello nell’epilogo finale, citando Gaber , “il capitalismo ha vinto e noi abbiamo perso”, ma per quanto i vincitori vogliano con ogni mezzo cancellare anche la memoria della nostra lotta e delle nostre speranze, la partecipazione al movimento del ’68 ha segnato le nostre vite e anche le scelte che molti di noi hanno fatto conseguentemente. Per esempio Marcello, laureatosi in ingegneria, racconta che dopo il militare scelse di non diventare quadro dirigente di una grande azienda, ma onestamente di insegnare elettronica nella scuola pubblica. “Mi ripromettevo di preservare i ragazzi … dal desiderio di appartenere a gruppi etichettati, troppo spesso inclini a seguire gli stereotipi … ero cosciente di non avere per loro le risposte, ma sarei stato molto felice di stimolare le domande”. Alcuni hanno rinnegato le idee di allora, ma essi come ha scritto Luciano Della Mea così facendo hanno rinnegato se stessi.
In questi ultimi tempi sono usciti diversi libri (soprattutto saggi) di protagonisti del ’68. Solo Adriano Sofri stranamente tace, almeno fino ad oggi. La nostra generazione sta arrivando al proprio epilogo, come si augurava l’impareggiabile guardasigilli Castelli che rimandava la soluzione del problema giustizia in Italia alla nostra estinzione biologica, e cerca di lasciare la propria testimonianza al futuro. Questo è il compito della memoria, distinto dalla storia, come scrive Adolfo Turbanti. Sul movimento del ’68 sono usciti molti saggi, ma praticamente esiste un solo romanzo (Nanni Balestrini, Vogliamo tutto, 1971) ed anche la memorialistica è esigua se ad esempio la paragoniamo a quella della Resistenza. Questa di Marcello Polvani ha una caratteristica: rappresenta la storia della formazione umana e politica di una persona che programmaticamente ha scelto di non essere un leader, ma “un gregario”. Di questa maggioranza del movimento, la fatidica “base”, difficilmente si ha traccia, ma Marcello riesce a renderci con particolare semplicità e freschezza “il fervore pisano”. Marcello usa questa felice espressione a proposito del “contagio” politico di Franco Serantini, giovane orfano e diseredato , il sovversivo massacrato dalla polizia a Pisa sul Lungarno Gambacorti il 7 maggio 1972. Io c’ero quel giorno. Posso testimoniare che il clima dei nostri anni pisani era esattamente così: avevi la sensazione di essere al centro di una scaturigine inestinguibile di movimento e di vita. Questa storia è in larga misura autobiografica, ma essa difficilmente si può ridurre alla sola biografia, perché chi scrive cerca di fare i conti con le idee e le ideologie, per cui il racconto in certi passaggi assume un andamento saggistico in campo politico, letterario e musicale. La trama del racconto è intessuta anche di inserti poetici (i testi di canzoni famose dell’epoca e quelli poetici dell’autore). Quindi il libro assume – spesso ingenuamente – una struttura transgenere e come sanno i lettori di questa rubrica questo è appannaggio dell’allegoria. Nel caso in esame l’allegoria è particolare perché nello specifico materiale della storia di un individuo tratteggia la storia di molti. Molto interessante è come viene affrontato il tema specifico della violenza, una questione che attanagliava tanti di noi. Contrariamente all’interpretazione corrente, che il movimento del ’68 fosse violento e fosse l’anticamera del terrorismo, Marcello per tutto il racconto sostiene una posizione conflittuale. Alla fine della storia scrive: “Il tema della violenza continuava a turbare i miei pensieri; ne avevo parlato con Marzia. Lei era cattolica praticante [era una compagna della Lega dei Comunisti di Grosseto, scomparsa prematuramente, una delle persone a cui è dedicato il libro]… mi aveva detto, confortandomi, che secondo lei doveva valere il principio di necessità: sicuramente alcune classi sociali si sarebbero ribellate con violenza ai principi di uguaglianza e ai cambiamenti di sistema che avevamo in mente e che di conseguenza ci saremmo trovati nella condizione di rispondere, per difenderci, non solo a parole”. Severissimo è pure il giudizio sul terrorismo: “nel caso delle BR la consideravo una violenza barbara e gratuita, senza nessuna dignità politica”. Marcello pensa che la strage di Piazza Fontana, che ormai sappiamo essere per mano fascista e per ideazione dei servizi segreti, fosse una trappola per lacerare il movimento e fargli scegliere la lotta armata. Vorrei ribadirlo a tutte lettere: noi, il movimento dl ’68, non abbiamo avuto niente a che fare con il terrorismo, anzi lo abbiamo combattuto.
Un ultimo passaggio significativo sta nella prefazione di Adolfo Turbanti: alla fine egli dimette i panni delle storico e prende posizione e parlando del ricordo di allora scrive: “E’ inevitabilmente il suono del dolore, ma, se si fa attenzione, possiamo riconoscere una tenue melodia: credo che sia quella della speranza”. E affida il messaggio alle parole di uno degli storici più insigni, Ernest Bloch, citato nell’ultima nota: “non soltanto la nostra vita …. non rimane … chius[a] nel suo tempo o in generale all’interno della storia, ma continua ad agire come figura di testimonianza in un campo che va oltre la storia”. Bloch lo scrive a proposito di Munzer, “teologo della rivoluzione”. Come a dire che le nostre speranze di uguaglianza e di giustizia sociale travalicano i tempi storici della nostra sconfitta di allora.