IRENE NEMIROVSKY
“DUE”
ADELPHI, MILANO, (1939) 2010, pp. 237
In una nuova domenica di guerra propongo un libro, che narra delle conseguenze della Prima Guerra Mondiale con il presentimento della Seconda. L’autrice rappresenta un potente punto di vista femminile, che merita particolare attenzione e che ci rimanda ancora alla lotta che stanno conducendo le donne curde e iraniane per la propria liberazione da un regime patriarcale infame, in cui un gruppo di vecchi maschilisti tiene bloccato un intero paese. Non ho dubbi che alla fine, pur con enormi sacrifici, le donne faranno prevalere il loro punto di vista che per me coincide con quello della democrazia e della libertà.
I versi di Kipling, che qui do in una sommaria traduzione, introducono in esergo il romanzo in esame: “Non cerchiamo più la tempesta per deliziarci,/ non costeggiamo più correnti d’aria e scogli,/ non chiediamo altro giorno o notte / che di venire con meno avventura alla nostra meta”. Essi chiaramente alludono al placarsi degli ardori amorosi giovanili in un calmo amore coniugale, che sembra essere il significato secondo di questo romanzo, forse un po’ scontato. Nella quarta di copertina Valeria Parrella annota l’opinione del primo editore francese della Némirovsky per cui “questo romanzo, il suo ‘primo d’amore’, era bello almeno quanto il celeberrimo ‘David Golder’. Forse più bello”. Dissento. “Due” è un bel romanzo, in cui si esprime la straordinaria capacità dell’autrice di indagare le emozioni e i sentimenti umani, ma lo trovo privo di quella particolare potenza critica con cui la Némirovsky ha rappresentato il mondo dell’alta borghesia ebraica. Innanzitutto il titolo: a stretto rigore dovrebbe intitolarsi “Tre”, perché le storie d’amore che esso contiene approdano inevitabilmente all’adulterio. L’autrice non può che rappresentare il proprio mondo e il matrimonio borghese non può che approdare classicamente, appunto, al “triangolo borghese”.
Il modo drammatico, con cui la scrittrice lo rappresenta, oggettivamente sottintende una critica, ma senza la ferocia che conosciamo nel “David Golder”. Eppure vi serpeggia un motivo potente: i ragazzi, che si incontrano in una notte di primavera per la Pasqua del 1920 per una nottata di spensieratezza e d’amore, sono sopravvissuti alla Grande Guerra. “Pensavano a quei giovani, fratelli, amici, le cui ossa, da tempo, si disfacevano nella terra delle tante fosse comuni. E loro, i sopravvissuti, sapevano finalmente di essere mortali. È una lezione che di solito si impara quando la giovinezza è ormai finita, ma chi l’ha appresa a vent’anni non la dimenticherà più. Ah, bisognava far presto, non perdere tempo, respirare, baciare, bere, fare l’amore” . Questa acquisizione non pesa abbastanza, anche se c’è il presentimento (solo vago) del destino ancora più drammatico che attende questa generazione e la stessa autrice, inghiottita da Auschwitz, il cui incombere aveva sottovalutato. Qual’è altrimenti il senso di questo brano, posto quasi alla fine del libro? “Capita a volte di vedere la morte sul volto di un uomo ancora giovane e che sembra in ottima salute. Si dice: ‘È assurdo!?, non ci si pensa più, ma quando quel giovane muore davvero, allora ci si ricorda dell’istante in cui qualcuno più vecchio e più saggio di noi, che vive in noi – e forse non morirà con noi – ha visto quello che noi non avremmo mai saputo vedere”.
Il gruppo di giovani gaudenti di quella notte di primavera intrecceranno le loro storie intorno ad una coppia principale, quella di Marianne e Antoine, che si prendono e si lasciano fino a sposarsi per costituire una coppia feconda (avranno tre bambini considerati dal padre “animaletti ancora, senza anima”). La loro passione giovanile si spegne con il matrimonio ed entrambi, prima lui e poi lei, si troveranno un amante. Antoine è particolarmente tormentato, si porta una delle peggiori maledizioni che possono funestare la vita di un uomo: non essere amato dalla madre. Questo è considerato inevitabile per la scrittrice, che in altri romanzi avrà parole più tenere per i vecchi coniugi (ad esempio “I doni della vita”, 1940): “Marianne e Antoine non avevano conosciuto la maledizione congenita al matrimonio: le liti senza ragione, senza motivo …”. Antoine ha una relazione particolarmente intensa con Evelyne, la sorella minore della moglie. Non riuscirà a decidersi a vivere questo amore alla luce del sole, né a permettere all’amante di sciogliersi dal legame clandestino e trovarsi un’alternativa. Evelyne, che capisce molto bene la natura di tale legame, troverà un modo tragico per uscire di scena suicidandosi. Lo stesso Antoine sarà sul punto di suicidarsi. Marianne, che nel frattempo ha recuperato come amante una vecchia fiamma di gioventù, ci rinuncerà per stare vicina al marito. Il tema della morte aleggia in tutto il romanzo a testimonianza che quella di questi giovani è la “generazione perduta”, quella di Hemingwey. “Il desiderio di morte, che era rimasto latente in lui sin dalla notte in cui aveva saputo della fine di Evelyne, si faceva a tratti così forte, così veemente, che Antoine evitava di trovarsi solo in riva al mare …”. Come a solito lascio alla curiosità del lettore l’agnizione finale del libro.
Da un punto di vista libidico inevitabilmente ciò che emerge dall’inconscio nel romanzo è insieme una forte pulsione di vita mista a quella di morte, che sicuramente rimanda al tema della guerra e dell’essere sopravvissuti, di cui l’autrice non ha ancora piena consapevolezza.