ROBERTA LEPRI
“DNA CHEF”
VOLAND, ROMA, 2022, pp. 153
Questa nuova domenica di guerra, mentre le donne curde e iraniane continuano a battersi per la libertà e per la vita di noi tutti, propongo questo libro di una donna, un’autrice grossetana. Il romanzo mi è piaciuto: ho contato 85 diverse “emergenze” narrative, una ogni due pagine, cosa che attesta una tensione notevole che la scrittura mette in moto nel lettore, nonostante abbia dovuto superare l’impatto negativo di un titolo, che mi è sembrato artificioso. Ma l’autrice sostiene che il romanzo è costruito a partire proprio da questo nucleo narrativo: la passione per la cucina del protagonista, lo chef Guido Nocentini , ha un quid di genetico, ereditato dal nonno cuoco, comunista e rabbioso come lui, quasi il gusto degli chef potesse essere assoluto, determinato dai geni, come l’orecchio di certi musicisti.
È il decimo romanzo con cui Roberta Lepri si cimenta e mi pare ella abbia acquisito una notevole padronanza del mezzo, da quando ne presentai il primo romanzo esattamente 20 anni fa. La sua narrazione scorre bene, è piena di trovate. La lettura è piacevole, la semplicità è solo apparente. Dal punto di vista della struttura la vicenda, che porta all’avventura e al destino del protagonista, è una storia familiare trigenerazionale, raccontata con una modalità specifica e sperimentale, molto moderna, in cui le storie oscillano e si intrecciano sull’asse temporale. La costruzione scopre le carte poco a poco con un inizio apparentemente faticoso, che cresce e si accelera con lo scorrere delle pagine. La struttura per certi versi richiama la suspense del giallo, in cui l’unico morto è per malattia professionale (la “fibrosi polmonare” da amianto del padre di Guido).
La narrazione parte dal nonno Giovanni, confinato alle Tremiti dalla dittatura fascista, a cui il nipote assomiglia fisicamente e nel carattere dominato dalla rabbia. Giovanni è un escluso, cresciuto in orfanotrofio come la moglie, Beatrice, che per amore lascia Firenze e lo segue al confino. Essi, dopo la liberazione si sposano e rimangono nell’isola, dove hanno un figlio Bruno, che diventa operaio all’ILVA di Taranto. Questi sposa la figlia di una coppia di umbri (è la regione di origine dell’autrice), Annamaria ed hanno due figli, Guido, e Giorgio. Il primo si sente preso da un destino di esclusione, che lo porta lontano dall’isola e dalla famiglia in cerca di fortuna come chef in giro per il mondo, prima a Londra, poi a Milano e quindi a Roma. Il secondo, più fisicamente prestante, rimarrà con i genitori apparentemente preferito.
Guido, richiamato d’urgenza a casa dall’aggravarsi della morte del padre, di fronte al suo corpo morto scopre la ragione della “rabbia antica”: “ha la sensazione di venire sempre escluso da qualcosa, di non essere davvero parte della famiglia e che ci siano segreti a cui non ha mai avuto accesso” . L’esclusione, che per la generazione dei nonni e dei genitori è sociale e politica, per lui – “uno chef stimato, rispettato e ben pagato … comunque insoddisfatto e rabbioso” – sembra essere di natura psicologica e relazionale: “Sua madre. Guido la ama senza poterla sopportare”. È dal pacifico amore dei genitori che si sente escluso. Si potrebbe pensare all’emergere di un’edipica esclusione dal godimento del corpo materno. Le ultime volontà del padre, che cerca di recuperare il rapporto con lui, lo riporta alla casa delle isole Tremiti e a trovarvi pace, complice anche il primo lockdown della pandemia da Covid.
Lascerò come la solito l’agnizione finale alla curiosità del lettore: nel suo ritorno alle Tremiti per Guido si svelerà la vera origine del mito familiare delle tagliatelle al sugo dei ricci, di cui Roberta Lepri ci fornisce anche la ricetta in calce al romanzo, insieme ai ringraziamenti che aprono uno spaccato sul romanzo: non solo rivelano la sua passione per la cucina, ma soprattutto le meticolose ricerche, che stanno a fondamento del libro. Dirò solo che il lettore si troverà inaspettatamente di fronte ad una storia dentro la storia, che prende le mosse dall’ambientazione scelta per il romanzo, quella per cui le Isole Tremiti sotto il fascismo furono scelte come luogo di confino degli omosessuali. La narrazione è, infatti, affollata di molti particolari, che la pongono forse anche troppo nel mainstream attuale (l’attualità della questione del fascismo, le conseguenze della rivoluzione informatica sulle nostre vite, l’esclusione della diversità, l’uso delle droghe, la morte per amianto e la condizione operaia).
Solo apparentemente la storia è declinata in termini maschili, quella della continuità tra nonno, padre e nipote, che poi è in parte ribaltata a sorpresa nel finale, perché “le donne, tutto nella famiglia è sempre stato deciso e mosso da loro”. Qui potremmo rivenire un possibile significato secondo del romanzo: è la diversità, l’alterità, che muove il mondo, in particolare quella femminile, anche nella parte che nascondono dentro di sé gli uomini pur essendo maschi. Infine la lingua è solo in superficie semplice e piana. Nella sua tessitura l’autrice come nella migliore tradizione italiana fa i conti con l’origine “volgare” della nostra lingua da Dante in poi: fa i conti con il dialetto, quello toscano e anche pugliese. C’è pure uno sconfinamento nell’inglese senza contare l’abbondanza del lessico francese, che domina ovviamente la ricostruzione delle gerarchie della grandi cucine stellate. Dunque il romanzo ha il sapore di un buon piatto preparato con cura in una buona cucina.