ANDREA CAMILLERI
“LA TARGA”
RIZZOLI, MILANO, 2015, pp. 85
A proposito del dibattito sull’ironia, che ferve in questi giorni a Grosseto per coprire la vergogna e che ci catapulta tristemente sulle prime pagine dei giornali nazionali, senza dimenticare che la guerra continua a mietere vittime in Ucraina e che le donne curde e iraniane continuano a battersi per la vita e la libertà di tutti, propongo il libro di un maestro dell’ironia.
Lo faccio a scopo pedagogico affinché chi ha tutto da imparare nel settore impari leggendo un racconto non troppo lungo e, quindi, non troppo faticoso. Per non fare la parte di schierarmi con un autore comunista (Camilleri lo fu dichiaratamente fino all’ultimo respiro, usava dire: “lasciatemi morire comunista”) comincerò da una critica. Ciò che stona del libro è che si tratta di un’operazione commerciale, la quale ricava un volume da un racconto di 50 pagine con l’aggiunta di una lunga lettera di Giuseppina Torregrossa, medica, scrittrice e siciliana, che fa parte della scuderia Rizzoli. Penso sia la patronessa della pubblicazione, che fra l’altro critica Camilleri per come vi affronta la figura femminile. La lettura, comunque, è piacevole e scorrevole come sempre nei lavori di Camilleri (ci vogliono al massimo due ore). Il racconto rispetta lo stile dell’autore, la lingua sperimentale giocata sul dialetto e soprattutto sull’ironia, anche se abbiamo di fronte un’opera minore della sua enorme produzione. Come a dire che Camilleri ha scritto di meglio.
L’operazione commerciale mi pare di Rizzoli e l’intento è tradito da un passaggio della nota biografica nel secondo risvolto di copertina: “I suoi libri sono tradotti in tutto il mondo e hanno venduto oltre 30 milioni di copie”. L’argomento è di quelli favoriti da Camilleri, che ne ha ricavato romanzi drammatici e anche più esilaranti di questo come la storia dell'”angilu minchiuto” de “La presa di Maccallè” (2003). Parliamo del ventennio fascista, nel momento della massima connivenza del popolo italiano con il regime, esattamente il giorno dopo dell’entrata in guerra, l’avvio della follia mortale che ridusse la nostra patria ad un cumulo di macerie. Credo che l’autore abbia scelto la data non a caso per evidenziare la responsabilità di tutti gli italiani, salvo la minoranza degli antifascisti. Non si può imputare a Camilleri, che è di altra tempra e onestà intellettuale, di aver seguito la corrente, la quale oggi cerca di sfruttare spesso in maniera bieca l’attuale ritorno di interesse – anche letterario – sul fascismo.
La data di pubblicazione (2015) lo mette al di sopra dei sospetti. Nel racconto ci sono tutti gli ingredienti del consenso al fascismo: la viltà, la mancanza di coraggio e l’assenza di moralità di maschi e femmine. L’ironia del racconto è quella tipica che Camilleri riserva alla temperie dell’epoca. Il protagonista, “il novantino” (96 anni per la precisione) Don Emanuele Persico, muore per un colpo, quando Michele Ragusano, un fascista pentito appena rientrato dal confino, gli soffia un nome che riemerge dal passato tempestoso ed opportunista di Persico, fascista della prima ora, a cui il circolo ‘Fascio & Famiglia’ propone di dedicare una strada di Vigata con relativa targa. In un percorso a ritroso di disseppellimento della verità con la tecnica del giallo si scopre che il protagonista morto è un falso garibaldino, poi socialista rivoluzionario e poi fascista per convenienza, per pararsi il culo dalla responsabilità di un omicidio avvenuto a Marsiglia ai primi del Novecento durante uno scontro tra socialisti e fascisti. A mano a mano che si scoprono i passaggi ambigui della sua vita, cambia l’iscrizione nella targa a suo nome: la prima anodina “caduto per la causa fascista”, poi quella più esilarante “provvisoriamente caduto per la causa fascista”, fino alla finale “un italiano”. E’ l’ultima pagina del racconto, che suona come un epitaffio su ciò che erano allora gli italiani acquiescenti e sostenitori del fascismo.
L’ironia emerge direttamente dal racconto realistico dei fatti “oggettivi” (per quanto inventati); è quella cha manca ad esempio nel malloppo di Scurati, in cui ho trovato un solo passaggio ironico, quello in cui nota come il teschio fascista assomigli a quello raffigurato sui flaconi di tintura di iodio. Inoltre Camilleri in sole 57 pagine riesce in un’operazione che Scurati ha programmaticamente fallito in 850 pagine: spiegare come si può passare da essere socialisti rivoluzionari ad essere fascisti, almeno psicologicamente se non storicamente. La spiegazione è il più vile opportunismo di chi sente l’onda del potere, altro che “annusare il secolo di cui è figlio”. Sembra che Camilleri adombri questa terribile opinione su un tratto del nostro carattere nazionale. Mentre la vicenda della targa si dipana, la giovane vedova di Persico, Anna Bonsignore, (“aviva vinticinco anni ed era ‘na biddrizza da fari spavento”,cioè impauriva i suoi vili ammiratori), da lui sposata “per pura ginirosità fascista”, perché aveva perso il marito volontario fascista in Spagna, si dà a due ferventi membri del circolo ‘Fascio & Famiglia’ in cambio di una pensione privilegiata. Ancora una volta si vede il risvolto della retorica fascista centrata sulla famiglia.
Un terzo respinto, per lo scorno, subito mette in movimento le ricerche che portano all’amara verità sulla natura del Persico. Forse allora la Torregrossa nella sua lettera al “maestro” (titolo – mi risulta – che Camilleri fieramente rifiutava) ha ragione nelle critiche rivolte all’autore nella gestione della materia, in particolare su perché il vecchio Persico abbia così facilmente rispettato la vedovanza di Anna o sull’immagine tradizionale delle donne-Circe, che trasformano gli uomini in porci, che per la Torregrossa è mal fondata semplicemente perché gli uomini porci lo sono di suo, “eccetto i presenti”. Ella si aspetta una parola più chiara dal “maestro” sulla questione femminile, che sarebbe “più efficace di mille decreti legge”. Se avesse letto “La rivoluzione della luna” (2013), incentrata sulla figura dell’unica vicerè donna della Sicilia spagnola, Donna Eleonora de Maoura, che – come sostiene l’onniscente Wikipedia – “richiama la convinzione dell’autore che le donne abbiano doti tali da esercitare un’azione politica coraggiosa e concreta che classi sociali misogine e reazionarie ostacolano con ogni mezzo”, di parole ne avrebbe trovate non una, ma un libro intero.