GROSSETO – La pasta come la conosciamo oggi, ossia cotta in una liquido, è una “invenzione culinaria” relativamente recente, nata nell’alto medioevo.
L’informazione emerge da una ricerca commissionata da Confesercenti Grosseto e Siena allo storico Maurizio Tuliani.
Al tempo dei romani la pasta non c’era, c’erano impasti che però venivano cotti in forno o su pietre arroventate, mentre esistevano processi di panificazione.
I Romani utilizzavano il Siligo che equivaleva al nostro grano tenero. Ma lo usavano per fare cotture a secco, come le gallette o in liquido bollente, come le polente.
La cosa che più si avvicinava alla moderna pasta fresca era il Laganum, che come lavorazione si poteva avvicinare ad una pasta senza lievito tirata a sfoglia, non era però cotto in liquido, ma a secco, in forno, in padella, alla griglia.
Il cuoco Apicio lo cita in una ricetta: parla di una sfoglia essiccata, una sorta di focaccia fine, che si alterna a pesce o carne sminuzzata, a creare più strati, e poi viene cotta in forno. Ne parla anche Orazio.
Per avere una cottura in acqua del Laganum bisogna arrivare nell’alto Medioevo. Come testimonia Isidoro da Siviglia nel 638 il Laganum viene cotto prima in acqua e poi viene fritto: “come un pane sottile e largo (qui pane significa impasto) prima cotto in acqua e poi soffritto”.
Siamo nel Medioevo dei Comuni, un periodo in cui le città producono una categoria di uomini eccezionali: i mercanti, che portano denari e investono in qualità della vita e di questo ne beneficerà tutta la società italiana.
In un testo di cucina si parla di Lasagne di quaresima (un periodo in cui non si può mangiare la carne): la pasta andava cotta e poi condita con noci, spezie e zucchero (che era stato introdotto dall’oriente e rientrava anch’esso nelle spezie).
Della lasagna parla anche Cecco Angiolieri all’inizio del 300: quando un piatto entra nella letteratura significa che è suffcientemente diffuso e conosciuto, tanto che esisteva anche la professione del lasagnaio: in un testo un tale “Duccio lasagnaio in Camollia”, a Siena, vende vermicelli per chi lavora all’ospedale Santa Maria della scala.
Nei secoli centrali del Medioevo l’impiego di sfoglie di pasta fresca ritagliate in piccole dimensioni regolari diventa sempre più diffuso. Quadretti, rombi, rettangoli cotti in brodo, chiamati lasagne.
La lasagna è nota nella Toscana dal XIII secolo. Insieme ai tortelli e a una pasta in granelli viene citata come cibo della mensa dei frati di Camaldoli, consumato nei giorni delle feste.
Il Medioevo è il periodo in cui la pasta fresca inizia ad entrare nella cultura gastronomica toscana. Non solo lasagne ma anche vermicelli che son chiamati anche Trii, dalla latinizzazione di una nome arabo.
Ci sono trattati medici, come il Tacuinum sanitatis, tradotto dall’arabo, in cui in generale si sconsiglia la pasta perché poco digeribile. La si consiglia però come rimedio per dei malesseri: con zucchero e olio di mandorle “giova ai dolori del petto”. Cotta con la piantaggine “giova allo sputo di sangue”. È considerata molto nutriente ma si digerisce male a causa della sua alta viscosità, quindi va annaffiata con “vino e pepe” e nei ricettari del 500 si consiglia per questo motivo una cottura di ben due ore.
Nel 400 maestro Martino, cuoco di corte, descrive la tecnica dei suoi vermicelli all’uovo. Si valorizzano anche le paste ripiene: tortelli (piccole torte in quanti ripieni), ma anche ravioli che però sono il ripieno del tortello ma senza pasta attorno a contenerlo. Nei ricettari medievali ci sono molte ricette di tortelli e crespelle farciti in vari modi e con varie forme. In Toscana però si consolida quella con ripieno di ricotta verdure e uovo che utilizziamo ancora oggi.
Ad un certo punto emerge un nuovo termine che va diffondendosi sempre più: maccheroni. L’origine del termine non è chiara, forse viene dal termine manducare, ossia mangiare. All’inizio significa più tipi di pasta. In Toscana perlopiù pasta lunga. La troviamo in una novella della metà del ‘300 del fiorentino Franco Sacchetti, e anche il Boccaccio, nel Decamerona, parla di maccheroni ravioli e tortelli che rotolano giù da una montagna di formaggio. Se nel primo caso parliamo di pasta lunga, nel secondo rotolano e si suppone dunque che sia una pasta corta.
Nei ricettari medievali il tortello è farcito con carne, ma soprattutto con verdure, ricotta e uova e soprattutto con le bietole.
Dal Rinascimento la pasta è sempre più centrale sulle mense: a metà del ‘500 è un alimento apprezzato da tutti, ma consumato perlopiù nelle tavole della classi più agiate, come la nuova borghesia che si sta facendo largo nella società. Tra i più poveri la farina è ancora utilizzata per la panificazione, la pasta resta il cibo delle grandi occasioni, momenti speciali, banchetti, nascite, matrimoni.
E questo non cambierà sino al secondo dopoguerra quando pian piano il livello economico medio si andrà stabilizzando. Per secoli è rimasto un indicatore sociale di benessere. Sino agli anni 50-60 mangiare pasta restava una prerogativa delle tavole delle feste, o della domenica. Come del resto carne e pesce.