IGNAZIO SILONE
“FONTAMARA”
MONDADORI, MILANO, (1933, 1949) 2016, pp. 167
In questa 50^ domenica di guerra, che continua imperterrita con la sua carneficina come quella che insanguina le piazze e le carceri del governo reazionariodi Teheran, propongo un romanzo, che narra di un’altra guerra secolare, più oscura, ma non meno sanguinosa, quella che nel nostro Sud contrappone “cafoni “ e “galantuomini” o anche “cittadini”. È considerato il capolavoro di Silone ed è anche il suo romanzo di esordio, scritto dall’esilio svizzero e pubblicato prima in lingua tedesca (1933), poi in lingua italiana in Francia a spese dell’autore con un’etichetta editoriale fittizia. È stato per lungo tempo più conosciuto nel resto d’Europa che in Italia. Qui viene pubblicato la prima volta da Mondadori nel 1949 dopo la Liberazione dal fascismo. In tutto il mondo è considerato un classico dell’opposizione antifascista.
Silone è stato uno dei fondatori del PCd’I da 1921 e dirigente del centro interno clandestino sotto la dittatura fascista. Si allontanerà dalla dominante linea stalinista e verrà espulso dal partito ed inseguito da calunnie e scomuniche secondo il pessimo costume dell’epoca. Ne abbiamo parlato a proposito di “Una manciata di more”, che ricorda per tanti versi “Fontamara”. Egli assumerà legalmente il nome di Ignazio Silone, che riassume il nome di un santo spagnolo e un cognome derivato da quello di uno dei capi della rivolta dei popoli della Marsica contro Roma nella “guerra sociale”. Un nome quindi che riassume la posizione dell’autore che è cristiano da sempre dalla parte dei poveri.
Fin da titolo e dalle prima pagine della “Prefazione” si riconosce la struttura ibrida e transgenere del romanzo. Fontamara è un piccolo “villaggio meridionale”, che assomiglia a tutti gli altri, in primo luogo al paese natale dell’autore, Pescina, aggrappato come “un gregge di pecore scure”, a metà costa tra le montagne della Marsica e la valle del Fucino. Il toponimo di pura invenzione contiene due elementi contradditori: è una “fonte” di vita legata all’acqua, ma che insieme è “amara”. Lo stile, la struttura e il genere sono appunto ibridi. È stato difficile in sede critica attribuire il lavoro di Silone ad una delle correnti letterarie del Novecento: il suo realismo assume un punto di vista popolare come nel caso del verismo verghiano, ma non troviamo traccia dell’imparzialità del narratore, di cui qui si apprezza tutto l’afflato etico. È nettissimo nel romanzo da quale parte sta Silone: da quella dei poveri o “cafoni”. Lo stile oscilla dalla violenza dell’espressionismo all’atteggiamento tragicomico con un notevole taglio ironico. Il risvolto di copertina dice che nel romanzo “Silone riesce a fondere ballata popolare, parabola evangelica e satira politica in una partitura corale ritmata che si fa denuncia violenta di ogni ingiustizia”. Lo stile molto particolare e l’approccio transgenere servono a raccontare realisticamente una vicenda umana specifica dandole un senso di ordine universale. In conclusione siamo di fronte ad un’opera allegorica.
Silone immagina tre compaesani, che sono scampati da Fontamara e lo hanno raggiunto nell’esilio svizzero di Davos, Giuvà, Matalè e il loro figlio, gli raccontino a turno “gli strani fatti” accaduti a Fontamara. Le tre voci si alternano nel racconto. Questo pone alla voce narrante immediatamente un problema: “in che lingua devo adesso raccontare questa storia? A nessuno venga in mente che i Fontamaresi parlino l’italiano”. Per i cafoni l’italiano è “una lingua straniera”. “Ma poiché non ho altro mezzo per farmi intendere (ed esprimermi per me adesso è un bisogno assoluto), così voglio sforzarmi di tradurre alla meglio, nella lingua imparata, quello che voglio che tutti sappiano: la verità sui fatti di Fontamara”. Subito dopo il narratore chiarisce lo statuto realista e popolare della narrazione: “Se la lingua è presa in prestito, la maniera di raccontare, a me sembra, è nostra. È un’arte fontamarese” . Spiega “una cosa per volta, senza allusioni, senza sottintesi, chiamando pane il pane e vino il vino”.
Poco prima ha descritto la condizione di totale ignoranza dei cafoni, la cui povertà e il cui sfruttamento è “un cerchio immobile”, vissuto come “naturale, immutabile”, in cui i cafoni sono l’ultimo gradino della piramide sociale: vengono molto sotto “i cani delle guardie del principe” Torlonia, cioè il “padrone della terra”. Essi vivono come braccianti nelle terre di latifondisti o al massimo come piccoli proprietari di un campicello, unica fonte della loro sopravvivenza. I governanti sono solo coloro che fanno pagare le tasse. È così da sempre, da prima dell’arrivo dei piemontesi e anche dopo, fino ai nuovi governanti fascisti.
I primi due episodi narrati sono il distacco della luce elettrica, perché nessuno la pagava, e la presa per i fondelli con cui vengono indotti da un dirigente della milizia fascista a firmare una carta in bianco, dove invece di chiedere il ripristino della luce vengono turlupinati e cedono l’uso del ruscello, che è l’unica fonte d’acqua per irrigare i campi. “L’impresario”, il nuovo podestà fascista, ha acquistato a prezzi di svendita alcune terre ed ha imposto con i denari presi dalla banca una serie di attività imprenditoriali che lo arricchiscono. L’unico galantuomo che dice di difendere i cafoni, è Don Circostanza, detto “l’amico del popolo”, capace di adattarsi ad ogni circostanza pur di sfruttare la loro ingenuità e la loro ignoranza. Per sedarne la ribellione fa mettere per iscritto l’accordo per cui i due terzi dell’acqua andrà all’impresario e gli altri due terzi (di quanto rimane) vanno ai fontamaresi. Viene pattuito che tale accordo varrà 50 anni, che Don Circostanza “attenua” a favore dei cafoni in “10 lustri”. Il tono con cui vengono narrate queste vicende oscilla tra il tragicomico e l’ironico, in cui sono sempre i cafoni a scontare la loro ignoranza.
La riottosità dei fontamaresi è tale che divengono oggetto di una spedizione punitiva degli “uomini neri”, duecento fascisti che mettono a ferro e fuoco il piccolo borgo stuprando le donne e schedando gli uomini come sovversivi. E’ interessante la definizione di chi sono i fascisti, insieme espressionistica e sociologica: “una categoria speciale di povera gente, senza terra, senza mestiere, o con molti mestieri, che è lo stesso, ribelle al lavoro pesante; troppo deboli e vili per ribellarsi ai ricchi e alle autorità, essi preferivano di servirli per ottenere il permesso di rubare e opprimere gli altri poveri”. Berardo Viola, discendente di una famiglia di briganti, che non ha nulla da perdere perché nell’ambizione di emigrare ha venduto il suo campicello, coagula le speranze di tutti gli altri giovani del paese. Berardo ha una spontanea “coscienza di classe”, una notevole intelligenza e una specifica sensibilità alle ingiustizie. Silone ne parla con una vicinanza umana tragica e pessimista: “Berardo ha lottato durante tutta la vita contro il destino, e sembrava che da nessuna disgrazia si lasciasse abbattere a lungo. Ma si può vincere contro il destino?”. Berardo è descritto come una forza della natura, come “una quercia”, ma con gli occhi e il sorriso di un fanciullo”. Berardo conduce la resistenza dei fontamaresi finché cede all’amore di Elvira, la ragazza più bella del paese. Egli lotta contro il suo sentimento perché non avendo più la terra, che per i cafoni è come “una moglie”, una sposa materica e terrigna, pensa di non potersi impegnare in un matrimonio. Ma passa la notte della spedizione fascista con lei e si ritiene impegnato. Allora ritorna all’idea di “pensare ai fatti suoi” e riconquistare la terra per sposarsi. Parte, quindi, per Roma con la solita raccomandazione scritta di Don Circostanza con la speranza di trovare lavoro, ma è inseguito dal marchio fascista di essere un ribelle. Finiscono i soldi e lui e il giovane figlio di Giuvà e Matalè finiscono in galera, insieme al “Solito Sconosciuto”, un personaggio che sembra essere un membro del partito comunista clandestino. Barardo viene torturato fino alla morte, che viene spacciata per suicidio. La notizia del suicidio getta nella costernazione di fontamaresi, che reagiscono stampando un foglio, con il “poligrafo”, che gli ha fatto avere il “Solito Sconosciuto”. “Il giornale dei cafoni”, che indica la loro capacità di ribellione ad un livello di coscienza più alto, assume il titolo di “Che fare?”, ripreso significativamente da celebre saggio di Lenin sull’organizzazione del partito rivoluzionario. La reazione del partito fascista è questa volta drastica. Lascio come al solito l’agnizione finale alla curiosità del lettore. Dirò solo che i sopravvissuti di Fontamara prendono la strada dell’esilio fino alla porta del narratore a Davos.
Il pessimismo tragico di Silone ovviamente tiene conto dell’epoca storica in cui avvengono i fatti narrati. La prefazione è datata “estate, 1930”. Sono gli anni del massimo apogeo del consenso la regime fascista e quindi è naturale che di speranze ce ne siano poche, ma l’allegoria della narrazione dà al pessimismo una dimensione universale, quella della lotta dei poveri contro l’ingiustizia, che permea tutta la storia umana con scarse speranze di riscatto e di redenzione. Ad un certo punto Berardo si chiede: “Dimmi la verità: esiste veramente questa Russia di cui tanto si parla?”. E’ la Russia rivoluzionaria, la Russia dei Soviet, la speranza dei proletari di tutto il mondo. Il punto più alto, che raggiunge la coscienza di Berardo e che illumina di speranza la sua morte, sta nelle parole con cui accetta il suo destino: “Sarò il primo cafone che non muore per sé, ma per gli altri”.