PRIMO LEVI
“I SOMMERSI E I SALVATI”
EINUADI, TORINO, (1986) 2007, pp. 160
Per la prossima giornata della memoria delle vittime del nazismo e del fascismo (27 gennaio) vorrei ricordarvi questo libro e insieme che è la 47^ domenica di guerra. Anche questo libro parla della seconda guerra mondiale e delle sue conseguenze più estreme. Non è che mi scelgo tutti i libri da leggere tra quelli che attengono alla guerra, è che la letteratura ne è piena perché la storia umana è – come in maniera improvvida ci insegnano a scuola – una serie sterminata di guerre che si succedono una all’altra. Come dice il movimento delle donne (ricordiamo la lotta delle donne e curde ed iraniane) sarebbe il momento di mettere la guerra fuori dalla storia umana. L’alternativa è la letteratura di evasione, che proprio non fa per me.
Parliamo dell’ultimo libro scritto da Primo Levi, scrittore e poeta, torinese, chimico di professione, sopravvissuto ad Auschwitz, noto soprattutto per il suo primo libro sul lager nazista, “Se questo è un uomo” (1947), che – come ci informa la “Nota biografica e fortuna critica” di Ernesto Ferrero in calce al libro – doveva chiamarsi proprio “I sommersi e i salvati”. Il titolo fu deciso dall’editore, non piaceva a Levi perché troppo simile a “Uomini e no” di Vittorini. Levi fu azionista e partigiano in Val d’Aosta, dove venne arrestato per una delazione e come ebreo internato nel campo di sterminio per eccellenza del sistema concentrazionario nazista, da lui definito “anus mundi”. Un modo elegante e raffinato per dire che vi confluiva il peggio del regime nazista o per essere più precisi “luogo di drenaggio ultimo dell’universo tedesco”.
“I sommersi” furono i molti che vennero travolti dal lager, “i salvati” i pochi che per varie ragioni vi sopravvissero come l’autore. Si salvò perché il suo lavoro come chimico era necessario ai tedeschi. Questo libro di Levi esce nel 1986 un anno prima del suo suicidio, che è un destino comune a molti dei sopravvissuti, legato – secondo Levi – al senso di colpa per la sopravvivenza. Probabilmente per Levi c’è una ragione in più, a cui accenna Todorov nella sua “Prefazione” al libro. All’epoca della morte i giornali – ricordo – la attribuirono alla depressione di cui avrebbe sofferto per cui si lanciò a 68 anni dalla tromba delle scale di casa. Non mi ha mai convinto questa spiegazione, perché erano gli anni in cui fece la sua apparizione il “negazionismo storico”, che protervamente tentava di giustificare le infamie del nazismo e del fascismo. La prefazione di Todorov chiude dicendo “Certi giorni Levi doveva sentirsi scoraggiato vedendo che i risultati della sua battaglia erano così lenti ad arrivare, così controbilanciati da veri e propri passi indietro … scoraggiato di dover cominciare il lavoro da zero con ogni nuovo individuo”. Ricordava di trovarsi di fronte a “una guerra senza fine”. Forse quando decise di uccidersi era uno dei giorni di scoraggiamento, in cui il peso dell’inanità del suo sforzo lo piegò più di quanto non fosse riuscito il lager. Todorov conclude:”… proprio perché questa è una guerra interminabile, che noi abbiamo ancora bisogno di Primo Levi”. Dico io: proprio per questo noi dobbiamo continuare il suo lavoro, coltiva la memoria di quanto è stato perché non si ripeta.
I temi del libro sono tantissimi: esso interroga il nocciolo della natura umana attraverso la lente del lager. La stessa forma è tra la narrazione dell’esperienza e il saggio storico e filosofico. Come scrive nella “Postfazione” Walter Barberis, Levi fa i conti con la Storia. Egli è come Erodoto, esiliato dalla sua terra, un “histor” (l’etimo della parola “storia”), cioè “colui che sa per aver visto o appreso”, il testimone dei fatti che “saprà interpretare le ragioni profonde degli avvenimenti”. Voglio toccare solo due temi, che mi sembrano centrali: la memoria e la colpa. Levi parte proprio da qui nell’incipit del capitolo I, “La memoria dell’offesa”, scrivendo che “la memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace”. Senza di essa non ci sarebbe la storia e non ci potrebbe essere testimonianza, impegno a cui Levi si stente chiamato, ma essa tende a dimenticare per ragioni materiali, che non sfuggono al chimico Levi, e per ragioni psicologiche, perché ricordare vuol dire “rinnovare il dolore” di “un trauma patito o inflitto”. Si tenga conto della doppiezza del trauma perché ci rimanda al tema della colpa. Ma l’offesa subita nel lager “è insanabile”, Levi ricorda l’esperienza del filosofo austriaco Jean Amery, con cui polemizzerà nel capitolo VI, a lui dedicato “L’intellettuale ad Aushiwitz”: “Chi è stato torturato rimane torturato..”. l’offesa “si protrae nel tempo, e le Erinni … non travagliano solo il tormentatore”, ma anche il tormentato. Eppure ricordare bisogna.
Il tema della colpa è ancora più drammatico perché esso riguarda non solo chi si è reso colpevole dell’infamia del campo di sterminio, ma anche chi vi è sopravvissuto, cioè i salvati. I due ambiti sono intrecciati tra loro. Per questo Levi dedica il capitolo più denso (il II, “La zona grigia”) a coloro che tra i prigionieri collaborarono, molti di questi sono sopravvissuti e possono recare la loro testimonianza proprio per questo. È il modo di scontare la loro colpa, che sembra non sedarsi mai. Una delle strategie dei nazisti era proprio quella di coinvolgere l’altro nel farlo diventare da vittima complice. Faceva parte proprio del processo di disumanizzazione a cui venivano sottoposte le SS e che esse perpetuavano con le proprie vittime. C’è qualcosa del carnefice dentro ciascuno di noi, questa è la radice del male. Giustamente nella “Postfazione” vengono ricordati da Barberis gli esperimenti fatti nel Secondo Dopoguerra da Philip Zimbardo e Staley Milgram, che con i loro studi scientifici “hanno certificato … [questi] esisti sconvolgenti”. Appunto per questo dobbiamo concludere con Levi: “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono essere sedotte ed oscurate: anche le nostre”.