KAZUO ISHIGURO
“IL GIGANTE SEPOLTO”
EINAUDI, TORINO, 2015, pp. 324
Mentre la guerra continua, con la sua strage di civili (oltre che di militari) come ogni guerra e il ricorso sistematico da parte russa alla fame e al freddo (cosa che ricorda gli assedi medioevali), propongo un romanzo che parla di un’altra guerra e delle sue conseguenze in bilico tra oblio e memoria secondo una caratteristica tipicamente umana.
Kazuo Ishiguro ha ricevuto il Nobel per la letteratura nel 2017. E’ noto per il suo primo romanzo di successo “Quel che resta del giorno” (1989), da cui James Ivory ha tratto l’altrettanto noto film con Anthony Hopkins e Emma Thompson.
E’ nato in Giappone a Nagasaki, la città distrutta dalla bomba atomica, ma si è trasferito da bambino a sei anni in Inghilterra, dove vive a Londra, è cittadino inglese e scrive in inglese. Rappresenta quindi una seconda generazione di migranti, cosa che a suo avviso nei prossimi anni diventerà una condizione diffusa e che rifletterà inevitabilmente le due culture di appartenenza. Potrebbe essere una conseguenza positiva della migrazione biblica di cui siamo testimoni.
Ha scritto solo sette romanzi (tra questo e il precedente corrono 10 anni), perché pensa di lavorare più sulla qualità che sulla quantità. Ha tutte le carte in regola dal mio punto di vista, ma questa sua ultima prova è per me deludente. Lo attestano un numero di evenienze significative che ho marcato nella mia lettura, inferiore alle venti.
La sua scelta per il Nobel a mio modesto avviso attesta l’incertezza degli accademici svedesi nel loro tentativo di uscire dal “canone occidentale”, rispetto al quale Ishiguro è sostanzialmente interno. La storia è un fantasy di ambientazione medioevale, nell’epoca successiva all’abbandono della Britannia da parte dei romani, in cui re Artù ha imposto una pace precaria tra britanni e sassoni. E’ un genere che segue le orme di Tolkien e che a me non piace (è troppo distaccato dalla realtà e troppo incline al simbolico).
In certi tratti il romanzo segue la tipologia del romanzo storico, ma la storia è piena di creature fantastiche: orchi, demoni, folletti, giganti e tra tutti un leggendario drago, Quering, il cui fiato produce una nebbia che determina l’oblio. Questo fa dimenticare tra l’altro le ragioni della contesa tra britanni e sassoni e quindi serve a mantenere la pace.
Il tema della memoria e della sua fallacia è caro all’autore, che qui ha bisogno di una storia fantastica per tenerlo in vita. Racconta una storia “a ritroso”, per così dire un recupero della memoria: due anziani coniugi britanni, Axl e Beatrice, sono consapevoli della nebbia che offusca i loro ricordi e prima di perdersi completamente, partono dal loro villaggio, dove vivono in maniera comunitaria, per cercare di ritrovare il loro figlio. Quindi la smemoratezza protegge un dato saliente della loro storia, che ovviamente non rivelerò, lasciandolo come al solito alla curiosità del lettore.
Dirò solo che l’agnizione finale, che rimane aperta, sia individuale che collettiva, è gestita dall’autore con scarsa suspense. La dimensione collettiva è riferita alla storia dei popoli e agli altri personaggi della storia: il guerriero sassone Wistan, che dà la caccia al drago Quering su ordine del proprio re per rinfocolare la guerra; il giovane orfano Edwin, segnato dal morso di un demone, che si accinge a diventare un guerriero sassone; l’anziano cavaliere di Artù Galvano con un ruolo ambiguo verso Quering; Lord Brenno, signore dei britanni, e il monaco saggio Jonus.
La stessa struttura narrativa è a ritroso, cioè i personaggi sono rappresentati mentre ricordano gli avvenimenti appena accaduti. Uno stratagemma narrativo molto interessante a significare che possono contare solo su una memoria a breve termine. Penso che ogni personaggio è simbolo e metafora di qualcos’altro: ad esempio sarebbe interessante indagare il fatto che “Quering”, il drago, porta un nome che condivide la stessa radice di “question” (= domanda).
Se vi è una metafora complessiva, cioè un’allegoria, che può dar luce a questa storia, sta nella contraddizione tra l’oblio che protegge dai ricordi dolorosi (compresa la guerra e i massacri) e la necessità di recuperare la memoria, che dovrebbe servire a non ripetere i vecchi errori, ma sinceramente – se c’è – questa è resa debolmente nel romanzo.
Vale qui una considerazione generale: sembrerebbe che le scritture moderne difficilmente si discostano dalla dimensione allegorica – salvo ovviamente la letteratura di consumo, cioè i molti bestseller, che non amo -, dimensione che inevitabilmente allude all’alienazione del moderno e dell’ipermoderno contemporaneo.