AMELIE NOTHOMB
“BIOGRAFIA DELLA FAME”
EDIZIONI VOLAND, ROMA, 2005, pp. 146
Mentre l’escalation della guerra in Ucraina non si ferma, anzi si sviluppa in una spirale di freddo e fame per i civili, secondo un’antica strategia “invernale” dei russi, vorrei parlare di una storia centrata sulla fame, ma intesa come fame di vivere di una giovane donna.
Il libro è il tredicesimo romanzo di un’autrice prolifica, pubblicata in tutto il mondo in milioni di copie, scoperta e tradotta in italiano da una piccola casa editrice in ascesa. La Nothomb pratica con pervicacia l’autobiografia, che è l’asse di tutti i suoi romanzi, e proprio in questo romanzo spiega la sua scelta di scrivere come soluzione esistenziale: “L’anoressia mi era servita come lezione di anatomia. Conoscevo il corpo che avevo scomposto. Si trattava adesso di ricostruirlo. Stranamente la scrittura vi contribuì. Era innanzitutto un atto fisico: c’erano ostacoli da superare per tirare fuori qualcosa da me. Questo sforzo costituì una specie di tessuto che divenne il mio corpo”.
Da allora la Nothomb si è imposta di scrivere un romanzo all’anno nella misura canonica delle 150 pagine. Il lettore di questa rubrica avrà notato come il tema dell’anoressia ritorna spesso come se fosse un elemento ridondante della scrittura femminile. E’ un dato epidemiologico che l’anoressia è un’esperienza molto frequente nella storia delle giovani donne d’oggi, ma non voglio ridurre alla pato-biografia la comprensione dell’autrice.
Cominciando la lettura mi aspettavo un esito specifico, ma non immaginavo questo, anche perché la storia non è canonica: qui abbiamo una bambina, che peregrina per il mondo al seguito del padre, diplomatico belga, prima in Giappone, eletto a patria adottiva, poi nella Cina della rivoluzione culturale, severamente criticata, e “l’universo … eretto” di New York , quindi la povertà del Bangladesh e della Birmania e infine il ritorno in un Belgio sconosciuto; ella va incontro prima ad una superfame, poi ad un “alcolismo infantile” e alla “potomania”, cioè una supersete d’acqua, bevuta a litri. Di solito i “sacri” testi di psichiatria descrivono l’alcolismo (la cui “etichetta diagnostica” è oggi scientificamente superata) come uno dei possibili sbocchi dell’anoressia, non come qui un antecedente piuttosto anomalo, una condotta appetitiva infantile condivisa con i genitori dalla vita festaiola.
Come dice la quarta di copertina del libro siamo di fronte ad “una divorante fame di vita”, strettamente connessa con l’amore: “La fame, quella vera, che non è la frenesia di un capriccio, la fame che strappa il cuore e svuota l’anima della sua sostanza, è la scala che conduce all’amore. I grandi amanti sono stati educati alla scuola della fame”.
Tutta l’infanzia della protagonista è descritta al femminile, spesa nell’amore della madre e della sorella Juliette, con la quale nell’affamato Bangladesh cresce in simbiosi “secondo il modello del doppio”, accompagnata prima da una tata interamente dedita a lei, Nishio-san, e poi da una serie di sue “favorite” tra le compagne di scuola. Queste passioni amorose femminili sono descritte con tale intensità da far sospettare un’inclinazione per l’amore saffico. Il padre, definito “bulimico inveterato”, “schiavo innanzitutto di sé” e del lavoro, appare come marginale nella storia. È solo l’autore delle peregrinazioni per il mondo: viceversa la catastrofe e l’insorgenza dell’anoressia avviene proprio di fronte alla fame della Birmania, quando la protagonista scopre il proprio corpo femminile: “ero enorme e brutta”, e soprattutto “orrore: desideravo un ragazzo. Ci mancava solo questa. Il mio corpo era un traditore”.
Qui comincia l’anoressia: “questo modo di vivere giansenista – niente cibo né per il corpo né per l’anima – mi manteneva in un’era glaciale dove i sentimenti non premevano più”, finché il corpo scheletrito si ribella alla mente, rifiuta la morte e riprende a mangiare. E’ interessante la fantasia febbrile, che rappresenta il riemergere del bisogno femminile: “avevo sempre le stesse immagini nella testa: ero un grande cono che passeggiava nel vuoto siderale e avevo come consegna quella di trasformarmi in un cilindro”, appunto un passaggio simbolico dal maschile (cono puntuto) al femminile (cilindro). Questa non è solo una storia clinica dell’ennesimo caso di anoressia, ma l’emergere dell’inconscio rimosso non solo in senso erotico, la fame estrema di godimento, ma anche in senso politico-sociale, il desiderio fuori di ogni regola. Lo stesso stile, fatto di capitoli brevi e pieni di osservazioni fulminanti, è teso all’eccesso.
La Nothomb scrive: “Cos’è una storia, quando uno ha quattro anni? È un concentrato di vita, di sensazioni forti”. L’autrice, dunque, è rimasta fedele alla sua vocazione infantile. Quindi la sua storia di perenne affamata è un lunga metafora, una allegoria della vita moderna sperimentata realisticamente come una continua mancanza di un oggetto d’amore e di senso.
La storia si conclude con un ritorno all’amato Giappone, che lascio alla curiosità del lettore. Dirò solo a conferma dell’interpretazione proposta che il romanzo si conclude con l’affermazione di uno dei personaggi, sopravvissuto ad una catastrofe naturale: “Che importa? Sono viva”.