SANTA FIORA – Dopo aver scoperto insieme a voi il piccolo comune di Monterotondo Marittimo oggi iniziamo una nuova cavalcata alla scoperta di Santa Fiora con il nostro progetto nato grazie alla collaborazione tra Anso, Associazione nazionale stampa online e Google.
Il progetto prende il nome di Piccoli Borghi e vuole valorizzare i piccoli paesi della nostra Italia. La nostra provincia è l’unico presente con due Comuni: Santa Fiora e Monterotondo Marittimo.
Santa Fiora è un piccolo comune dell’Amiata, in Toscana. Sotto le sue strade scorre, potente, l’acqua del fiume Fiora. Qui nasce infatti la sorgente che disseta gran parte della provincia di Grosseto.
Santa Fiora è il paese dove nasce l’acqua. La vena sotterranea attraversa tutto il borgo. Ogni angolo, ogni piazza, ha la propria fontana. Basta uscire di pochissimo dal centro storico per sentire un rumore crescente: è il rumore dell’acqua; cascatelle, fiumiciattoli, torrenti che attraversano giardini e orti. Una ricchezza blu, che da anni disseta quasi tutta la provincia di Grosseto.
La Storia
Ma Santa Fiora è anche un paese con una storia antichissima. Non a caso anche Dante la nomina nella sua Divina Commedia “E vedrai Santa Fior com’è sicura”. Le prime testimonianze risalgono all’anno mille. Grazie al dominio degli Aldobrandeschi, Santa Fiora diventa uno dei centri più importanti della bassa Toscana.
Dopo un periodo di decadenza la contea tornò a splendere dopo il matrimonio tra Cecilia Aldobrandeschi e Bosio Sforza da cui nacque il figlio Guido. In questo periodo Santa Fiora ebbe il suo periodo di massimo splendore: anche da un punto di vista culturale. Guido commissionò ad Andrea della Robbia, tra il 1465 e il 1490, le splendide ceramiche robbiane per ornare la cappella di famiglia. Si trova in questo piccolo borgo italiano la più grande collezione di queste meravigliose opere di scuola fiorentina. Di quest’epoca anche la costruzione del giardino della Peschiera.
L’uccisione del drago
Fu Guido Sforza il protagonista di una delle leggende più suggestive del medioevo. L’uccisione del drago della Selva nel 1490. La leggenda racconta di come molti contadini avessero lamentato la presenza di un mostro demoniaco, che aggrediva le greggi al pascolo. Furono i frati del convento a intercedere presso il signore che decise di fare una battuta di caccia contro “Cifero (Lucifero) Serpente” come gli abitanti della Selva lo chiamavano.
Arrivato nella boscaglia Guido vide un animale terribile e usò uno strategemma: mise il suo scudo, lucidato a specchio, davanti alla bestia. Questi credette di aver trovato un suo simile, e si avvicinò senza paura, e il conte lo uccise, riportando alla Selva le spoglie dell’animale. Il teschio fu posto nella nuova chiesa che venne fatta erigere: quella della santissima Trinità dove si trova ancora parte del “drago”.
Sin qui la leggenda. Ma la verità è forse un po’ diversa, come racconta lo studioso Lidiano Balocchi. Il fossato del castello era probabilmente arricchito da coccodrilli del Nilo. Uno di questi animali era verosimilmente fuggito avventurandosi nella boscaglia. Quando a Guido giunse la descrizione del drago, capì subito di cosa si trattava, per questo decise che sarebbe andato a caccia da solo per uccidere quello che, anche dalla forma del teschio, non sembra essere altro che un coccodrillo. Metà dell’animale rimase dunque nella nuova chiesa che Guido fece costruire, mentre il resto dell’animale fu portato a Roma, a Trinità dei Monti.
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