PIER PAOLO PASOLINI
“L’ODORE DELL’INDIA”
GUANDA, PARMA, (1961) 2003, pp. 123
Quest’anno ricorre anche il centenario della nascita di Pasolini, considerato uno dei massimi autori del Novecento italiano. Sabato 3 dicembre è programmato un convegno che mette a paragone tre autori, di cui ricorre il centenario quest’anno (Ernesto Balducci, Luciano Bianciardi e Pier Paolo Pasolini). Per questa occasione pubblico la recensione di un suo libro, che sembra essere un diario di viaggio, ma che va oltre i confini di questo genere.
In libreria mi ha attratto il titolo, che condividevo della mia esperienza di lavoro in India. L’odore pungente, quasi feroce dell’India si impone con un mix di sentori: quello del cibo, delle spezie, del gelsomino, della nafta nelle strade affollatissime, il puzzo delle cloache a cielo aperto e soprattutto quello caratteristico della miseria. Dice Pasolini che è l’odore “di poveri cibi e di cadavere che, in India, è come un continuo soffio potente che dà una specie di febbre”.
Ci sono dentro alcuni dei temi di Pasolini: la passione intensa per la vita e per la morte come un presagio della sua fine insulsa e violenta. Il libro è un reportage di viaggio, uscito a puntate su “Il giorno” dal 26.2. al 26.3.1961 e poi pubblicato da Garzanti nello stesso anno, “un diario di viaggio diventato con gli anni un vero e proprio libro di culto”, dice la quarta di copertina.
Il viaggio è quello che Pasolini fece nel 1961 insieme ad altri due scrittori dell’area del PCI con l’autore stesso, Elsa Morante e Alberto Moravia. I tre si avventurarono in auto dentro un paese sconosciuto. L’esperienza nasce soprattutto dall’incursioni notturne dell’autore complice la pigrizia di Moravia, che “va a letto”, mentre lui va incontro allo “spaccato fantasmagorico” delle città indiane, popolate da “un’enorme folla vestita di asciugamani”, un modo un po’ paesano di parlare del “lunghi”, la pezza con cui gli indiani si cingono i fianchi, l’unico “vestito” dei poveri, che Ghandi consigliava che ognuno si filasse con le proprie mani.
Pasolini definisce le sue uscite “la mia esibizione di intrepidezza nell’avventurarmi nella notte indiana”. Nel 1961 Pasolini è ancora agli esordi: le riprese di “Accattone” sono agli inizi (1961), sta preparando l’”Antigone” e sta scrivendo i testi poetici de “La religione del nostro tempo” (1961), ma nel suo diario di viaggio c’è già tutto.
Come è stato scritto ci sono i suoi temi cari: la religione, la cultura, la borghesia, la morte, ma soprattutto quello che attrae il suo sguardo sono le persone, la folla degli emarginati, in India a milioni come quelli che incontra nelle borgate romane. Secondo Emanuele Trevi Pasolini in India mette in atto la tecnica molto moderna dello “straniamento”, del vedere una cosa dal punto di vista poetico e letterario come fosse la prima volta.
La forma, che assume il suo lavoro sull’India, sembra essere un’autofiction, cioè un forma di invenzione narrativa su base autobiografica, che secondo Trevi ha le sue radici proprio nel diario di viaggio: la voce narrante del personaggio principale, di colui che ci racconta, è lo scrittore testimone di qualcosa che vede e quindi racconta, finendo per narrare se stesso. Quidi sembra che ci troviamo di fronte ad un testo trans genere e quindi allegorico. Possiamo chiedersi: un’allegoria di cosa? Un’allegoria del moderno, della sua alienazione, che si specchia in una cultura antica e aliena come quella indicana.
Il libro coglie molto dell’India, in particolare la dominanza degli odori, ma anche – seppure in secondo piano – dei suoni: la musica tipica, il gracchiare dei corvi, ubiquitari ed altro. Mentre la tecnica dello straniamento sembra rendere bene il vissuto di estraneità radicale che lo straniero prova in India, il modo di Pasolini di dimostrare la natura “paesana” o peggio “banale” dell’India mi sembrano un tentativo di ridurre le distanze, di difendersi dalla terribile alterità di questo paese. Quindi, mentre la lettura dei sei capitoli del reportage pasoliniano ha motivi di interesse, l’intervista di Moravia, aggiunta in calce al volume, mi è sembrata noiosa, spocchiosa e insopportabile.
Il libro chiude con una sorta di “pacificazione” con l’India della morte, dei cadaveri che vengono bruciati all’aperto a Benares sulle sponde del fiume sacro, il Gange. In contrasto con quanto detto nelle pagine precedenti “non c’è nessun odore, se non quello, delicato, del fuoco”. Lascio come al solito alla curiosità del lettore come si possa giungere a questa conclusione.