Quest’anno ricorre il centenario della nascita del più grande scrittore grossetano, Luciano Bianciardi, nato il 14 dicembre 1922. Con il magro finanziamento garantito dal Ministero dell’Istruzione e pochi altri fondi raccapezzati in un affannoso fund rising il 12 novembre prossimo la Fondazione, che porta il suo nome, terrà in città l’evento principale, un convegno sul tema dei rapporti tra letteratura e lavoro. Allora in questa nuova domenica dell’interminabile guerra in Ucraina, propongo di parlare di uno dei suoi libri più importanti.
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LUCIANO BIANCIARDI
“IL LAVORO CULTURALE”
FELTRINELLI, MILANO, (1957) 1991, pp. 112
E’ il primo libro della cosiddetta “trilogia della rabbia” bianciardiana, che dissacra la condizione dell’intellettuale italiano condannato alla subalternità, dopo la fine delle speranze resistenziali. E’ quello che ha consacrato l’immagine di Grosseto come Kansas City, la città “aperta ai venti e ai forestieri”. E’ un agile libretto, che si legge bene, con una lingua intessuta di neologismi e termini presi dal dialetto, quindi con un piglio sperimentale, che ha la sua ascendenza nella lezione di Carlo Emilio Gadda, uno dei maestri riconosciuti da Bianciardi. Inaugura la forma ibrida tipica di Bianciardi: il romanzo-pamphlet. Uscì 65 anni fa presso la casa editrice milanese, la cui fondazione fu una delle cause della “fuga” di Bianciardi da Grosseto. Seguiranno “L’integrazione” (1960) e poi “La vita agra” (1962), che consegnerà l’autore grossetano alla fama insieme al film con Tognazzi, che ne fu tratto.
Per “lavoro culturale” si intende quello proposto dal PCI dell’epoca (siamo nell’immediato dopoguerra) agli intellettuali per impegnarli nella promozione della cultura nazional-popolare, termine gramsciano abusato per qualificare l’impegno per l’emancipazione delle masse lavoratrici e popolari (per usare la terminologia dell’epoca). Bianciardi fa il verso ai mal vezzi di quell’epoca con tutte le sue strumentalizzazioni “politiche”. A seconda dei vari responsabili del lavoro culturale, che si susseguono inviati dal PCI a Grosseto, vengono investiti i vari campi della letteratura, del cinema e delle arti. L’artificio narrativo è quello della storia di due fratelli, in cui Bianciardi si sdoppia per cercare di affrontare un dualismo mai risolto per lui, quello tra impegno e disimpegno. E’ lo stesso artificio che Bianciardi userà nel successivo romanzo, “L’integrazione”. Bianciardi fu uomo di grande impegno intellettuale e politico, ma fu uno dei primi ad aver chiara la sconfitta di quella linea culturale e del ruolo dell’intellettuale sia sul versante dell’impegno che del disimpegno solo culturale, il “giadinetto” di cui lui stesso aveva parlato nel suo saggio sulla rivista Belfagor, “La nascita degli uomini democratici” (1952). Egli aveva chiarissimo che la nuova società, che si veniva costruendo, non lasciava grandi prospettive alle speranze democratiche e libertarie in cui credeva. Il capitolo 6, dedicato all’analisi del linguaggio verbale e non verbale della politica, è per me il più esilarante nella sua ferocia ironica e critica, che rimanda all’altro celebre, quello del dibattito sulle “virgolette” (oggi tornate tanto di moda anche nel linguaggio comune) de “L’integrazione”.
Come di solito le forme ibride, in questo caso incrociate tra due generi letterari diversi, il romanzo e il pamphlet, siamo di fronte ad una allegoria del moderno, che denuncia l’alienazione degli intellettuali e di tutti gli umani nel mondo contemporaneo.
Per la situazione culturale grossetana trovo ancora attuale nella sua risibile tragicità il primo capitolo con la diatriba tra medievalisti ed etruscologi sulle origini della città. C’è un piccolo gruppo di intellettuali che è diviso sul “problema” delle origini e che si perde in una questione del tutto futile. Oggi mi sembra esattamente come allora (cambiando le etichette dei due o più gruppi, che si contendono il campo). La stessa memoria su Bianciardi è divisa e due gruppi si sono cercati di accaparrare il centenario della sua nascita. Per fortuna la radicale potatura di ogni velleità operata dalla pandemia ha avuto ragione di ogni diatriba. Ciò che manca è la terza posizione, quella dei giovani impegnati, di cui Bianciardi faceva parte allora, e che aspiravano al cambiamento politico e sociale, che poi non ci fu. Ricordiamo che Bianciardi con Cassola proprio in quegli anni aveva prodotto un’inchiesta sociale molto attenta sulla condizione dei minatori in Maremma, “I minatori della Maremma” (1955), che fu profetica (aveva denunciato il rischio del grisù che portò all’esplosione del pozzo di Ribolla). Nel capitolo aggiunto alla terza edizione “accresciuta”, datato 1964 e intitolato “Ritorno a Kansas City”, Bianciardi scrive mestamente: “La miniera di carbone nella piana sotto Montemassi, dopo lo scoppio non ha più riaperto”. E’ una chiusa terribile nella sua crudezza. Il successo de “La vita agra” c’è già stato, quando vengono scritte queste righe, e non ha portato il risultato di svegliare le coscienze che lui si aspettava. Bianciardi sa che l’unica strada che gli rimane è quella dell’esilio, che sarà tipica degli intellettuali, che “dicono la verità” (Edward Said, “Dire la verità. Intellettuali e potere”, 1994), e poi di tutti gli umani. L’autore ebbe il coraggio di essere conseguente e prese davvero la strada dell’esilio, ritirandosi a Rapallo, dove scrisse il suo ultimo romanzo distopico di ispirazione risorgimentale, “Aprire il fuoco” (1969), in cui ambienta la rivolta delle quattro giornate di Milano in epoca contemporanea e in cui si immagina in esilio.