ANNIE ERNAUX
“LA DONNA GELATA”
L’ORMA EDITORE, ROMA, (1981) 2021, pp. 188
Al nono mese di guerra, che inclina pericolosamente vero l’escalation nucleare, propongo il libro di una donna di 82 anni, a cui è stato assegnato il premio Nobel per la letteratura. Il romanzo è il terzo dell’autrice, tra i più venduti in Francia perché riguarda la condizione femminile o meglio “la sacra differenza”, quella che distingue – in modo per così dire incontrovertibile – le donne dagli uomini. È stato tradotto la prima volta in Italia dopo 40 anni che è uscito da Gallimard, ad opera della casa editrice che ormai pubblica tutta l’opera della Ernaux per la traduzione di Lorenzo Flabbi, che sembra accreditarsi come il traduttore ufficiale della scrittrice francese in italiano. Lo scrivo in premessa perché chi ha letto “Gli anni” può trovare questo romanzo non all’altezza di quello che considero il “capolavoro” della Ernaux e in qualche modo trovo questo giudizio “oggettivo”. Nel libro ci sono già tutti gli ingredienti che hanno fatto l’arte e la fortuna dell’autrice, anche se ne ho avvertito la pesantezza dell’intendo ideologico (ma io sono un uomo e così prevengo la critica delle sette lettrici donne di queste note).
È la storia di una giovane donna, nata negli anni Quaranta in una famiglia operaia, che gestisce un piccolo bar-drogheria nella provincia francese in Normandia. Il racconto giunge fino agli anni Settanta, anche se non sono pienamente raccontati come ne “Gli anni”. L’impostazione è classicamente femminista ed il libro più citato è “Il secondo sesso” (1949) di Simone de Beauvoir, considerato il fondamento del femminismo. Vi è un debito – anche eccessivo a mio avviso – con la psicoanalisi, di cui verso la fine del libro l’autrice sembra rendersi conto, parlando della “maledizione della psicoanalisi”, psicoanalisi che il marito rivolge contro di lei, scomodando Freud a proposito della “moglie castrante”. La voce narrante ripetutamente tende a definirsi “stramba”, cioè una sorta di anomalia. Nella sua famiglia i ruoli sembrano invertiti: il padre provvede alla conduzione della casa compreso accudire la figlioletta e la madre all’amministrazione del negozio. Quest’ultima è una donna molto fiera, emancipatasi dalla cultura contadina della sua famiglia attraverso il lavoro in fabbrica e tutta impegnata nel far emergere socialmente la figlia indipendentemente dal genere. Questo tipo di educazione rende la vicenda esistenziale della voce narrante del tutto particolare. Ella è studiosa, frequenterà il liceo di religiose in città a Rouen e andrà all’università preparandosi a fare l’insegnante con la convinzione che “le donne ne sanno più degli uomini”. In questo modo farà un salto sociale, passando dalla condizione operaia a quella borghese, rappresentata sarcasticamente dalla famiglia del marito. Vengono accuratamente descritti i vari passaggi di acquisizione dell’identità femminile: i giochi delle bambine e dei bambini, i primi amori adolescenziali, l’iniziazione sessuale fino alla prospettiva del matrimonio descritta magistralmente come inevitabile. Sulla divisione ineguale dei compiti domestici e dell’allevamento dei due bambini il matrimonio sembra naufragare. Il lettore si aspetta questa soluzione, che però non arriva mai. Non è prevista un’agnizione finale: lascio la fine del romanzo – che in qualche modo rimane aperta – alla curiosità del lettore, anche se per capire il senso del titolo bisogna arrivare all’ultima pagina: “Sono finiti senza che me ne accorgessi, i miei anni di apprendistato. Dopo arriva l’abitudine. Una somma di intimi rumori di interno, macinacaffè, pentole, una professoressa sobria, la moglie di un quadro che per uscire si veste Cacharel o Rodier. Una donna gelata”. Come a dire: la storia può finire così con un gelo mortale a meno che ci sia una ribellione. Sappiamo dalla biografia della Ernaux che il suo matrimonio finì con una rottura, ma questo non ci autorizza ad alcuna conclusione per la storia raccontata nel libro. La conclusione è lasciata al lettore o forse meglio alla lettrice.
Annie Ernaux è nota per aver rinnovato il genere dell’(auto)biografia, il suo è stato definito un “autobiografismo impersonale”, cioè ella racconta la sua storia per raccontare quella di tutti fino al prevalere della prima persona plurale ne “Gli anni”. Anche nel caso de “La donna gelata” il senso secondo del romanzo può essere questo: la storia della voce narrante può essere metaforica o meglio allegorica di quella di tante donne contemporanee nella loro lotta per emanciparsi dal patriarcato.
Lo stile è molto simile a quello di altri romanzi dell’autrice: una rievocazione di ricordi tutta di un fiato (il libro non è diviso in paragrafi e ci sono pochi spazi bianchi, tipici della lasse de “Gli anni”), che è in debito con la tecnica modernista del flusso di coscienza, ma con un modalità asciutta e limpida della scrittura, che è stata definita da alcuni critici come priva di emozioni, giudizio su cui non concordo. In questo romanzo le emozioni negative, la rabbia, sembrano prevalere su quelle positive, l’amore e la tenerezza, che pure ci sono. Una delle parole più frequenti è quella famosa del generale Cambronne, che la scrittrice usa per descrivere la propria vita matrimoniale, un’emersione potente di sentimenti inconsci ostili. I debito “ideologico” con la psicoanalisi, a cui la Ernaux alla fine si ribella, è quello della vagina come ferita: “anch’io la vedo come una ferita aperta in mezzo al corpo, che però non sanguina e non fa male”. È l’idea fondante della teoria freudiana della passività femminile, della donna come maschio castrato, di cui il femminismo degli anni Settanta ha fatto correttamente giustizia. Nella mia lunga carriera di psicoterapeuta a orientamento psicoanalitico non ho riscontrato tale vissuto in nessuna delle mie pazienti, neppure quelle più inibite. Ciò che meglio indica la natura delle donne è la loro capacità di accogliere, della quale è pieno, pur nella sua rabbia, anche il libro di cui parliamo.