GIOVANNI DE LUNA
“LE RAGIONI DI UN DECENNIO. 1969-1979. MILITANZA, VIOLENZA, SCONFITTA, MEMORIA”
FELTRINELLI, MILANO, (2009) 2011, pp. 255
Questa domenica, in cui la guerra si avvita su se stessa e si aggrava con le fosse comuni, i morti e la minaccia nucleare, propongo un libro di storia contemporanea, che rientra in un lavoro di ricerca teso a suffragare una testimonianza verso il futuro, il quale riguarda il periodo più formativo della mia esistenza.
In realtà il decennio in esame comincia prima con quello che viene abitualmente detto “movimento del ‘68”. Il decennio, di cui parla De Luna, assume una data di partenza, il 12 dicembre 1969, il giorno della strade di Piazza Fontana, “la strage di stato”, fino alla marcia dei quadri della FIAT, i 40.000, il cui corteo silenzioso sancisce la fine dell’unità di lotta tra operai e impiegati, la sconfitta delle ragioni di questo decennio, e l’apertura degli anni Ottanta, i veri “anni di piombo”.
Sotto c’è un problema di memoria storica, che De Luna è molto bravo ad evidenziare e che è uno dei pregi del libro: la memoria è stata dissimulata sotto l’unica etichetta degli “anni di piombo”, senza alcuna cesura, anzi con una supposta continuità tra il movimento del ‘68 e il terrorismo.
De Luna è uno storico “contemporaneista”, cioè si occupa della storia più recente, come questa del decennio 1969-79. Non si vergogna di esprimere un punto di vista parziale, anzi fin troppo, secondo me, e lo scrive pure. All’epoca è stato militante di Lotta Continua a Torino e filtra la storia da questo angolo di visuale.
“Nelle sue [del libro] pagine c’è molta Lotta Continua e c’è molta Torino”. La cosa più interessante è la scansione temporale, che propone De Luna, cioè la divisione del decennio in esame in due quinquenni: il primo dal 1969 al 1975 e il secondo dal 1975 al 1979.
“Si tratta di un decennio spaccato in due metà”. Lo storico dimostra che il 1976 è un punto di svolta segnato da due eventi: le elezioni del 20 giugno 1976 e il mancato (di poco) sorpasso del PCI sulla DC e lo scioglimento di Lotta Continua al congresso di Rimini ad opera delle femministe. Prima di questo spartiacque c’è il movimento del ‘68, dopo cominciano gli “anni di piombo”.
Questa temporizzazione smentisce la vulgata, per cui c’è una continuità tra il ‘68 e il terrorismo. In proposito dimostra che il tema della violenza rivoluzionaria ha percorso il dibattito interno di Lotta Continua con la distinzione – per me un po’ speciosa – tra “violenza difensiva” contro la repressione, in qualche modo necessaria e lecita, e “violenza offensiva”, cioè perseguita soggettivamente a scopi rivoluzionari. Questo rischiò di compromettere Lotta Continua “con chi stava per scegliere le strade della lotta armata”, cosa di cui Lotta Continua si rese conto e ritrattò, correndo il gravissimo rischio di compromissione con l’omicidio Calabresi.
Dal mio punto di vista la questione non è solo un oggetto teorico, ma è soprattutto un problema di valutazione della fase socio-politica. Anche allora nel fuoco delle lotte non pensavo che la fase, che stavamo vivendo, fosse pre-rivoluzionaria, quindi il terreno della violenza inevitabile dello scontro rivoluzione-controrivoluzione non era principale. Era principale il terreno della lotta legale e dello sviluppo della democrazia.
Questo introduce un’altra questione: condivido con De Luna l’idea che occorreva una “lunga marcia attraverso le istituzioni”. Era una strategia, che riprendeva l’innovazione del movimento di contestare le istituzioni dall’interno (università, scuola, manicomi, ospedali, prigioni, esercito, magistratura, la stessa fabbrica ecc.) e riprendeva il concetto di Gramsci di egemonia come conquista delle “casematte” della borghesia. Lo facevamo nella pratica con le nostre occupazioni, i contro-corsi, la contestazione della cultura accademica ecc., ma l’unico a teorizzarlo fu Rudy Dutschke a Berlino. La strategia fu interpretata in chiave moderata dal PCI. Se siamo nell’attuale fase storica con il rischio autoritario di manomissione presidenzialista della Costituzione, è anche la conseguenza della sconfitta di quel movimento e di quella strategia.
Un altro elemento dell’analisi storica di De Luna è quello la militanza, intesa per il movimento del ‘68 come impegno totalizzante, fortemente connesso ai luoghi di vita e di lavoro dove ciascuno di noi era, ma radicalmente diverso – lo dico sulla scorta di un’opera dello storico Hobsbawn – dal “ribelle” ottocentesco e dal rivoluzionario di professione teorizzato da Lenin, che poi produsse i grigi funzionari sovietici e dei partiti comunisti della Terza Internazionale.
Finito il movimento i militanti del ‘68 con la delusione della loro sconfitta sono rifluiti in gran parte in una cittadinanza, che conserva una sua radicalità mobilitandosi quando la democrazia è in pericolo e che chiamo “la riserva della Repubblica” (cfr . nel libro il capitolo “Da militanti a cittadini”). Sia detto autocriticamente: avremmo dovuto lavorare ad un’organizzazione nazionale di questo strato sociale. In qualche modo lo facemmo disperatamente fino a Democrazia Proletaria, ma l’inseguimento estremista della “rivoluzione parolaia” ci impedì di perseguire l’obbiettivo nella pratica.
Così dell’organizzazione soggettiva d’avanguardia non è rimasto nulla e la “lunga marcia” non ha avuto grandi realizzazioni pratiche se non parziali (la lotta per il superamento dei manicomi, lo svecchiamento delle strutture accademiche ad es.). Viceversa il modello della militanza terzinternazionista, in particolate quello cospirativo del PCI – scrive De Luna -, è passato con esito tragico in quello terrorista delle BR. Basti considerare la parabola storica di uno dei fondatori delle BR, Prospero Gallinari, proveniente dalla FGCI.
E’ interessante il continuo riferimento che De Luna fa al rapporto tra il movimento del ‘68 e la Resistenza e la guerra partigiana. L’antifascismo – posso testimoniarlo – fu una costante del nostro movimento. In particolare De Luna richiama il giudizio di un altro storico, il comandante partigiano Guido Guazza, che “aveva sottolineato una serie di aspetti (la dedizione completa alla militanza che evocava la ‘partecipazione integrale’ del combattente partigiano, il prevalere dell’iniziativa d basso e il rifiuto della delega che suggerivano una certa analogia tra l’assemblea studentesca e la banda partigiana) effettivamente centrali nella concezione politica degli studenti”.
De Luna trova le ragioni della sconfitta del ‘68 nella mancata comprensione dei grandi rivolgimenti socio-economici del secondo Novecento, in particolare la fine della fabbrica fordista e la rivoluzione elettronica. Va detto che non avevamo tanti strumenti teorici per comprendere quanto stava succedendo. Per questo è fondamentale trasmettere la memoria di quanto è stato in modo che in futuro i prossimi giovani che ci proveranno – perché è sicuro che accadrà prima o poi – non rifacciano gli stessi nostri errori e riprendano le nostre ragioni.