ALESSANDRO BARICCO
“OMERO, ILIADE”
FELTRINELLI, MILANO, 2004, pp. 165
Proseguo nella ricognizione sulla guerra, che continua a infuriare tra una crescente indifferenza per il rischio nucleare incombente. Questa domenica propongo questa riscrittura dell’antico poema omerico sulla guerra per antonomasia.
Sinceramente continuo a preferire il ritorno a casa di Odisseo, che rimane il mio “eroe” preferito, in tutte le tradizioni, antica, medioevale e moderna, perché rappresenta la “saggezza” – come anche in quest’occasione – e soprattutto l’eterna ricerca umana. Ho studiato i poemi omerici, “Iliade” e “Odissea” a scuola, prima alle medie e poi al liceo, successivamente ho riletto le traduzioni dall’”Odissea” di Salvatore Quasimodo, che mi hanno accompagnato nelle tante esplorazioni della Grecia con mia moglie e i miei figli. Leggendo la riscrittura di Baricco mi sono chiesto più volte cosa mi hanno insegnato al liceo. Devo confessare che ci avevo capito poco, non ho avuto la fortuna di avere insegnanti capaci a rendere attuali i versi di Omero o forse la loro traduzione nella “grancassa” settecentesca di Vincenzo Monti – come la definiva Bianciardi – me li faceva sentire lontani. Devo in gran parte a mio padre l’amore dei classici e un conseguente approccio “pagano” all’esistere.
Quella di Baricco è una riscrittura, nata per “una lettura pubblica”, cioè un tentativo moderno di riprodurre il canto degli aedi, che celebravano le gesta degli eroi, cantando in pubblico. Baricco non è un autore dei miei preferiti, troppo “calviniano” e studiato per me, ma in questo caso l’operazione ha una sua riuscita. Ha preferito lavorare su una traduzione moderna in prosa, quella di Maria Grazia Ciani (edita da Marsilio), cioè la scelta della lingua italiana contemporanea. L’intervento di Baricco è di due tipi: il primo è di “asciugare un po’ il testo”, operando alcuni tagli, togliendo le ripetizioni e le scene in cui c’è l’intervento degli dei nella storia, un modo per modernizzare il testo secondo Baricco, che cita Lukàcs: “il romanzo è l’epopea del mondo disertato dagli dei”; il secondo è distribuire il racconto in 17 monologhi, attribuiti ad alcuni protagonisti, principali e minori, della storia (Elena, Enea, Achille, Ulisse, Patroclo, Agamennone, Priamo), alcuni sono a più voci. Uno è affidato al fiume – penso lo Scamandro, che attraversa la piana di Troia – che si ribella alla carneficina che Achille fa dei giovani troiani nelle sue acque. Nel poema omerico non si racconta l’episodio del cavallo di legno e la fine di Troia, ma viene recuperato dall’”Odissea” e dalla tradizione omerica e messo in bocca a Demòdoco, l’aedo che canta per Ulisse alla corte dei Feaci. Il libro si chiude con una nota autoriale interessante: “Un’altra bellezza. Postilla sulla guerra”.
La storia è nota: il poema omerico narra gli ultimi 51 giorni dell’assedio dei greci della città di Troia, detta anche Ilio dal nome del suo fondatore, da cui deriva il titolo del poema, “Iliade”, come a dire la storia della conquista di quella città. La causa della guerra è il rapimento di Elena, la donna più bella della sua epoca, per mano di Paride, il bel figlio di Priamo ed Ecuba, a cui era stata promessa da Afrodite, dea dell’amore. Il marito tradito, Menelao, re di Sparta, è il fratello del “re dei re”, Agamennone, il quale nella sua brama di potere organizza una spedizione con un enorme esercito per vendicare l’affronto. Tutti i re e i principi della Grecia con qualche difficoltà partecipano alla spedizione. Ulisse si finse pazzo e fu smascherato quando gli posero il figlio neonato davanti all’aratro con il quale fingeva di seminare il sale. A sua volta Ulisse smascherò Achille, l’eroe noto per l’ira bellicosa, mentre stava nascosto in un gineceo, travestito da fanciulla: si rivelò attratto dalle bellissime armi, che Ulisse gli mostrò. Giustamente Baricco nella nota finale scrive che gli uomini (nel senso dei maschi) sono attratti dalla guerra “come le falene dalla luce mortale del fuoco”, ma essi hanno “un amore ostinato per la pace”. Questo sarebbe “il lato femminile dell’Iliade”. Subito dopo ricorda come nel VI libro c’è un “piccolo capolavoro di geometria sentimentale”, per cui Ettore, figlio di Priamo, il più grande dei difensori di Troia, allontanandosi dalla battaglia incontra tre donne, che lo vogliono trattenere: la madre Ecuba, la stessa Elena e la moglie Andromaca, che “gli chiede di essere padre e marito prima che eroe e combattente”. Si chiede Baricco: “Non è mirabile che una civiltà maschilista e guerriera come quella dei Greci abbia scelto di tramandare, per sempre , la voce delle donne e il loro desiderio di pace?”. Gli stessi combattenti con le “assemblee che non finiscono mai” cercano di “rinviare il più possibile la battaglia”. Secondo Baricco “l’Iliade è un monumento alla guerra” ed alla sua bellezza, alla cui fascinazione gli uomini non riescono a sottrarsi, ma rivendica “un’altra bellezza”, quella della pace e del quotidiano per “poter cambiare il proprio destino senza doversi impossessare di quello di un altro”, a cui si sottraggono, oltre il bene supremo della vita, l’onore, le armi e il corpo. Tutta la vicenda dell’Iliade sembra una serie di duelli tra eroi, che si conoscono per nome, il cui obbiettivo è essere il più forte e il più valoroso. Ciò segna un differenza colossale con la guerra moderna, in cui ci si uccide tra sconosciuti, sempre più a distanza come accade oggi con le cosiddette “armi intelligenti”, espressione quanto mai funesta, che irride ogni umana intelligenza. Ricordo il passaggio di “Un anno sull’altipiano” (1938), quando Emilio Lussu si rifiuta di uccidere un ufficiale austriaco che non sa che lui lo sta tenendo sotto mira.
In tal senso il significato secondo, la morale dell’Iliade, non solo è “pacifista” contro l’insensatezza della guerra (come emerge da tutti i libri che ne parlano), ma è un punto di vista dolente sul destino umano, che è sempre descritto come miserevole. Dice Antiloco parlando del pianto di Xanto e Balio “i cavalli immortali di Achille”: “avevano cavalcato al fianco dell’uomo, e da lui adesso imparavano il dolore: perché non c’è nulla sulla faccia della terra, nulla che respiri o cammini, nulla di così infelice come l’uomo”. Per quanto la nozione di destino sia cambiata in epoca moderna, rappresentando quel misto di eventi casuali e di scelte umane irreversibili, questo abbiamo ereditato dalla civiltà greca, il concetto di fato, di necessità inevitabile, di tragicità dell’esistere a cui non possiamo sottrarci. L’Iliade ne è piena, in particolare nel dialogo tra Priamo e Achille, che porta all’atto di pace della restituzione del corpo di Ettore. Dice Achille di sé: “è destino degli uomini vivere nel dolore … quel figlio … corre veloce verso il suo destino di morte”. Infatti ad Achille era stato profetizzato che sarebbe morto a Troia ed aveva deciso di partire lo stesso per guadagnarsi la gloria. Secondo Baricco è Achille, “che, come una donna, assiste da lontano alla guerra, suonando una cetra e rimanendo al fianco di quelli che ama .Proprio lui, che della guerra è l’incarnazione più feroce e fanatica, letteralmente sovrumana. La geometria dell’Iliade è, in questo, di precisione vertiginosa. Dove più forte è il trionfo della cultura guerriera, più tenace e prolungata è l’inclinazione, femminile alla pace”. Vi è, dunque, una simmetria psicoanalitica in cui emergono potentemente i due principi maschile e femminile o in senso più vasto la rabbia mortale e l’amore più dolce.