JOHN STEINBECK
“LA LUNA È TRAMONTATA”
MONDADORI, MILANO, (1942) 1965, pp. 237
È un’altra domenica di guerra, di un conflitto di cui non si vede la fine. Così vorrei parlare di questo libro, che deriva dalla mia libreria di ragazzo negli anni Sessanta e che tratta dell’ultima guerra mondiale. È stato definito un romanzo breve, anche se così breve non è. Uscì pochi mesi dopo l’attacco giapponese di Pearl Harbour alla flotta Usa, quando gli americani entrarono in guerra. La Norvegia, a cui allude l’ambientazione del romanzo, anche se i termini geo-politici rimangono vaghi, era già stata invasa dalla Germania nazista, attratta dalla sua ricchezza di minerali ferrosi e di carbone. Aggredito ed aggressore non vengono mai nominati (fatto forse significativo nel dibattito attuale, a proposito della critica universale alla guerra).
In realtà Steinbeck aveva scritto un’opera teatrale, in cui il paese invaso erano gli Usa, ma i produttori di Brodway rifiutarono di metterla in scena per evitare che popolazione e combattenti fossero intimoriti da questa ipotesi. Il dramma fu allestito pochi mesi dopo l’uscita ed il successo del romanzo. Nel 1943 ne fu tratto un film con lo stesso titolo, che è tratto dal “Macbeth” di Shakespeare, tragedia nota come una metafora del potere.
«The moon is down; I have not heard the clock» (Atto II, Scena I), tradotto: “La luna è tramontata; io non ho sentito l’orologio”. La frase, perfettamente inserita nella scena sembra alludere all’ora funesta della storia, di cui gli umani non sono consapevoli. L’autore la trasformò in un romanzo, anche se l’origine teatrale si sente nel notevole dialogato e conferisce all’opera un tratto trans-genere. Viene considerato un invito ai popoli europei a resistere contro l’ondata hitleriana. L’autore, insignito del Premio Pulitzer nel 1937 e poi del Nobel nel 1962, è stato corrispondente di guerra dall’Inghilterra, dall’Africa Settentrionale e dall’Italia.
La storia racconta di un corpo di spedizione, comandato dal colonnello Lanzer, che occupa una cittadina portuale nei pressi di una miniera di carbone, grazie all’aiuto di un traditore. Il comando dell’esercito invasore si istalla nella casa del sindaco, Orden, che teatralmente è la scena di gran parte dell’azione. I due personaggi rappresentano due modi di intendere il potere, l’ordine (non mi sembra casuale il nome del sindaco). Per il colonnello Lanzer, nome dal sentore germanico, il potere militare sta nell’esecuzione degli ordini dall’alto, anche se si rende conto della loro ottusità. Per il sindaco Orden il potere risiede democraticamente nel popolo, le cui indicazioni egli rispetta in tutte le circostanze.
I due co-protagonisti si fronteggiano per tutta la narrazione e servono il discorso generale, che l’autore vuol trasmettere al lettore. Siamo, quindi, di fronte ad un’ allegoria: la narrazione è realistica, ma piegata ad una costruzione filosofica di senso razionale. La popolazione della cittadina conquistata prima rimane attonita e poi lentamente si convince ad organizzarsi in una resistenza armata: cominciano i sabotaggi della produzione mineraria, del trasporto del carbone fino al porto, l’attacco dei militari isolati, quando vanno a donne, lo stillicidio delle loro uccisioni.
Lanser cerca di coinvolgere il sindaco nelle operazioni di repressione, ma Orden, pur nella sua consueta bonarietà, si oppone, scegliendo di stare dalla parte della propria gente anche a costo di sacrificare la vita. Lascio al solito alla curiosità del lettore l’agnizione finale, che ripercorre con uno stile molto coinvolgente la traccia del “Critone”, il dialogo giovanile di Platone sulla storia di Socrate, condannato ingiustamente a morte. È molto interessante il seguente passaggio del confronto finale tra Lanzer e Orden, che dice: «’Vedete, signore, nulla può mutare la situazione. Voi sarete disfatti e scacciati’. La sua voce era morbida, sommessa. ‘I popoli non amano essere conquistati e per questo non lo saranno. Gli uomini liberi non possono scatenare una guerra, ma una volta che questa sia cominciata possono continuare a combattere nella sconfitta. Gli uomini-gregge, seguaci di un capo, non possono farlo, ed ecco perché sono sempre gli uomini-gregge che vincono le battaglie e gli uomini liberi che vincono le guerre’».
Tra il rombo delle esplosioni il finale rimane, però, aperto. Non sappiamo che fine farà Orden, né Lanzer e le parti in causa, anche se sappiamo che Socrate – uomo giusto – andò coraggiosamente a morte e le sue ragioni di libertà, di giustizia e di raziocino ci sono giunte attraverso i secoli. Qualcuno interpreta coraggiosamente il senso secondo del romanzo: “la morale da trarre è che nessuno è vinto, finché non si arrende”. È la conclusione che trae l’onnisciente enciclopedia elettronica Wikipedia, ma si può trarre un significato più profondo. L’arroganza del potere, protetto dalla forza delle armi, e la gestione democratica dello stesso potere, protetto dalle leggi e dalla partecipazione popolare, sono due varianti della stessa questione, appunto della lotta per il potere, che caratterizza la civiltà occidentale (e non solo) e che inevitabilmente e drammaticamente non riesce a sottrarsi alla logica violenta della guerra.
Ovviamente non è in discussione il fatto, che la democrazia è di gran lunga preferibile alla dittatura e non vi può essere equidistanza tra le due risposte alla questione del potere, ma entrambe non hanno dato soluzione al problema della gestione violenta del potere e della guerra. Dal libro di Steinbeck si possono trarre indicazioni per il presente e per la guerra (e le guerre) in corso. È probabile che non ci siamo accorti che la luna è tramontata e che l’orologio della storia batte un’ora fatale per il genere umano. Trovo che quella di Steinbeck è un’allegoria potente del moderno e della sua tragedia, in cui movimenti inconsci libidici e distruttivi emergono ambiguamente mescolati.