LUCIO NICCOLAI
“1921 L’ATTACCO FASCISTA ALLA MAREMMA”
EDIZIONI CONOSCENZA, 2022, pp. 47
In questa ennesima domenica di guerra parliamo di un libro di storia, recentemente presentato ad Orbetello, che racconta la più drammatica conseguenza di un’altra guerra. È il “libricino” (come lo chiamano affettuosamente l’autore e l’editore per il numero ridotto delle pagine, credo), con cui esordisce una collana, voluta dalla CGIL provinciale di Grosseto dal titolo evocativo, “Promemoria”, suggerito da Anna Maria Giurelli, con l’introduzione del Segretario Provinciale, Andrea Ferretti.
La storia riguarda fatti vecchi di un secolo, quelli che portarono alla fascistizzazione forzata, alla conquista violenta della Maremma, allora “rossa” per la densità delle organizzazioni politiche e sindacali di sinistra, ad opera di un esercito di squadristi con l’appoggio delle guardie regie, dei partiti borghesi e degli agrari, i grandi latifondisti.
Va riconosciuto a Lucio Niccolai la capacità di rompere il silenzio in cui questo centenario rischiava di cadere. Il riconoscimento deve essere ancora maggiore se si tiene conto, che Niccolai è uno studioso locale, docente di italiano e storia alle superiori fino al 2020, non uno storico di professione. Non appartiene ad alcuna istituzione universitaria o altra specificamente finanziata per lo studio della storia contemporanea. La memoria di quei fatti lontani è stata quasi del tutto sommersa dall’oblio, per l’opera distruttiva condotta dai vincitori di allora, gli squadristi di Mussolini. È stata tramandata solo la loro “memoria” e tutti gli archivi delle organizzazioni proletarie e “sovversive” – come venivano definite allora – sono andati in larghissima misura persi nella devastazione e nell’incendi o delle loro sedi , secondo un copione ormai assodato, di cui il libricino dà rigorosamente conto.
Non solo vengono ricostruiti i fatti, luogo per luogo (nell’ordine Grosseto, Scansano, Orbetello, Porto Ercole, Porto S. Stefano, Magliano, Montiano, Pereta, Roccastrada, Follonica, Massa Marittima, Gavorrano, Scarlino, Manciano, Sorano, Pitigliano, San Quirico), ma soprattutto se ne traggono conclusioni generalizzabili come quelle di Angelo Tasca (“Nascita e avvento del fascismo”, 1950), che evidenziano il modello “manualizzato” della conquista della Maremma. Ad un vero e proprio esercito, forte dell’esperienza della Guerra Mondiale, di oltre 800 squadristi, armati di moderne armi da fuoco (rivoltella, moschetto, mitragliatrici, bombe a mano, persino cannoncini), i lavoratori si opponevano con “le armi improprie di un’epoca preindustriale, la falce e la roncola contadina (assai raramente il fucile da caccia)”.
Alle tecniche della guerra moderna, imparate nelle trincee, si opponevano le tecniche ottocentesche delle rivoluzioni (la barricata e poco altro). Niccolai fa notare non solo come lo squadrismo fascista è figlio diretto del reducismo nazionalista dalla Grande Guerra, ma come le forze proletarie fossero in ritardo con l’organizzazione di una risposta adeguata. Puntigliosamente Niccolai richiama “lo storico attento” affinché consideri il ritardo con cui si costituirono “gli arditi del popolo”, l’ unica organizzazione di sinistra, che si era formata per la difesa della squadrismo sullo stesso inevitabile campo militare.
Subito dopo nel concludere il libriccino col capitolo “Un bilancio pesante” . Niccolai pone un problema storico di prima grandezza: “Non erano mancati tentativi eroici di difesa e atti disperati di resistenza, ma la divisione interna al movimento proletario e la contrapposizione aperta tra le forze politiche che se ne contendevano l’egemonia, indebolivano il fronte difensivo, privo di una guida unitaria, di un coordinamento delle iniziative, di un’adeguata preparazione anche di tipo culturale e psicologico”.
Mi permetto di dire che probabilmente la scissione del PCd’I dal PSI nel 1921 era storicamente inevitabile a seguito della rivoluzione russa e dello stato del movimento operaio, ma l’avvento del fascismo è legato anche al fallimento dei processi rivoluzionari in Occidente, segnatamente in Germania e in Italia con il biennio rosso, in cui si parlò tanto di rivoluzione senza riuscire a dirigerne effettivamente il percorso verso la presa del potere. Il prevalere nel primo PCd’I della direzione settaria di Amedeo Bordiga e nel PSI degli inconcludenti seguaci di Serrati furono determinanti nella sconfitta. Il PSI si lasciò impaniare nel cosiddetto “patto di pacificazione” con i fascisti, che spregiudicatamente a Roma trattavano sotto l’egida del governo Bonomi e nel frattempo aggredivano militarmente città e territori come Grosseto e la Maremma.
Segnalo, infine, un passaggio che non ritengo secondario: la partecipazione emotiva di Lucio Niccolai, che attesta come lo studioso di storia (come di tutte le scienze) non può essere neutrale, ma è di parte per quanto possa essere equanime nel giudizio e filologicamente rispettoso nella ricostruzione dei fatti.
Di fronte alla descrizione delle devastazioni fasciste delle sedi di partiti di sinistra e sindacati Niccolai scrive testualmente: “Sfoglio inutilmente i libri di cartoline e vecchie immagini di Grosseto alla ricerca delle immagini dei luoghi devastati dalla furia fascista, difficilmente appaiono, e anche questo certamente ha contribuito a cancellarne la memoria”. Così come è stata cancellata la memoria dei nostri morti antifascisti di allora, su cui è calato l’oblio, che anche questa pubblicazione contribuisce a diradare a distanza di un secolo. Ci si ricorda dell’unico morto fascista, a cui il regime dedicò una strada cittadina. Ricordo qui i nomi dei quattro morti antifascisti: il muratore comunista Giuseppe Savelli, il giovane Arcadio Diani di soli 19 anni, Angelo Francini e Giovanni Neri.