IRENE NEMIROVSKY
“I DONI DELLA VITA”
ADELPHI, MILANO, (1941, 1947) 2009, pp. 218
Il libro di questa domenica parla ancora della guerra, di ben due guerre mondiali, che l’autrice conosceva bene per averci lasciato la pelle poco dopo aver scritto questo romanzo. Irene Némirovsky è ucraina e ricorda la prima invasione dell’Ucraina, quella di Hitler.
Il libro è considerato “il grande romanzo classico” dell’autrice, come scrive la nota editoriale di apertura, sulla misura classica delle 200 pagine con una possibilità di lettura scorrevole e un tratto nostalgico come chi sente l’arrivo di una crisi mortale inevitabile.
Rende bene l’idea come viene descritta la scena dei due personaggi principali, Pierre e Agnès Hardelot: i “genitori che invecchiano e che si amano ancora creano intorno a sé un’aura malinconica, tranquilla, abitata da fantasmi, che ai giovani risulta alquanto insopportabile”.
C’è un tratto autobiografico: la Némirovsky scrive il romanzo nella seconda metà del 1940, quando nella Francia occupata dai nazisti si muove con la stella gialla di Davide cucita sugli abiti, insieme al marito, condannata a vivere nascosta e a pubblicare con uno pseudonimo, nonostante fossero convertiti al cattolicesimo e tenessero un atteggiamento molto critico rispetto all’ebraismo. Moriranno entrambi ad Aushwitz nel 1942 a poca distanza uno dall’altro. I manoscritti saranno salvati dalle due figlie in fuga, le quali metteranno al sicuro il romanzo incompiuto che ha reso celebre l’autrice, “Suite francese”. “Di quest’ultimo può considerarsi una sorta di prova generale” e cronologicamente “I doni della vita” finisce dove l’altro comincia. Il titolo italiano mal traduce il titolo originale, che ha un taglio meno metastorico, ”Les Biens de ce monde”, letteralmente “i beni di questo mondo”.
La Némirovsky, di origine ebraica, nata a Kiev, la cui famiglia era fuggita in Occidente dalla rivoluzione bolscevica, racconta del suo presente con una capacità notevole di rendere il clima del tempo. La storia a differenza degli altri romanzi è fuori dell’ambiente ebraico e racconta di una famiglia di industriali, che posseggono un’industria cartaria nella piccola cittadina di Saint-Elme nel nord della Francia, destinata ad essere invasa e distrutta dall’invasione tedesca in entrambe le guerre mondiali. Gli Hardelot vanno incontro ad un destino di progressiva distruzione come la piccola città arroccata intorno al loro “castello”.
Come scrive Isabella Bossi Fedrigotti nella quarta di copertina: l’autrice “ha il dono di lasciar intravedere al lettore come funziona la macina della storia che, assieme al paese intero, frantuma e trasforma anche le singole famiglie”, soprattutto se ci si mettono di mezzo due guerre mondiali.
È la storia di quattro generazioni, che – osservate da un punto di vista strettamente borghese vanno incontro ad una progressiva rovina. Il nonno è presentato come un dispotico “padrone delle ferriere”, che regna incontrastato in fabbrica, in famiglia e sull’intero paese. Il romanzo si apre con la scena dell’amore clandestino del nipote-erede della fortuna degli Hardelot, Pierre, e la figlia di una famiglia della minuta borghesia, Agnès Florent. Pierre sceglie di sposare Agnès, rompendo il fidanzamento con Simone, una ricca ereditiera, su cui il vecchio Hardelot aveva messo gli occhi per rimpolpare il capitale della cartiera. Pierre viene misconosciuto e Agnès sarà accettata in casa molto tempo dopo che Pierre è tornato ferito dal fronte della prima guerra mondiale. La fabbrica, salvata dalla rovina della guerra e dalla crisi economica degli anni Trenta, passerà nelle mani di Simone, astuta amministratrice della propria fortuna, che è lo strumento della vendetta per essere stata respinta come promessa sposa. La storia si ripete nella seconda parte del romanzo con una specifica simmetria della storia e del sistema dei personaggi. Guy, figlio di Pierre e Agnès, sposa dopo una storia travagliata, Rose, la figlia conflittuale di Simone a dispetto della madre. Così la cartiera ritornerà in mano all’erede degli Hardelot, ma saranno solo macerie. Con la rotta dell’esercito francese, i tedeschi occupano metà della Francia. Saint-Elme è di nuovo in fiamme sotto le bombe, Pierre è l’unica “autorità” a difendere i suoi concittadini, facendoli mettere in salvo nel bosco che conosce bene, perché è il luogo del suo amore clandestino con Agnès. Questa fugge con Rose verso Vichy, la parte collaborazionista della Francia di Petain, l’aiuta a partorire un bambino. Alle parole di Guy, ricongiunto a Rose, è affidato il messaggio dell’autrice di “gioiosa sfida al destino”. “Vuoi distruggermi? E io vivo! Vuoi togliermi ogni speranza? E allora guarda: io mi sposo, amo, mi godo la vita, ho un figlio!”. Come di consueto lascio l’agnizione finale alla curiosità del lettore, ma il messaggio della Némirosky di fronte al destino infernale che l’attende è chiaro, alla fine romanticamente prevale l’amore. Sembra banale, ma sembra essere il significato secondo del romanzo: la difesa della vita in tutte le sue sfaccettature è l’unica speranza degli umani.
Vi sono tre luoghi in cui si parla dei “doni” o meglio dei “beni di questo mondo”: la prima emergenza sembra quella più trita, “tante responsabilità, tante angosce, tante prove”, dice Charles, il padre di Pierre, il più opaco degli Hardelot, sottoposto alle angherie del vecchio patriarca; la seconda è la più prosaica nel giorno della vittoria della Francia nella prima guerra mondiale, “ridateci le nostre donne, le nostre case, il nostro vino”, dicono i reduci più anziani, “vogliamo assaporare tutti i doni della terra” gridano i giovani; la terza è messa in testa ad Agnès alla fine del romanzo, “tutta la ricchezza, l’amore, il riso e il pianto che Dio le riservava lei li aveva raccolti”.
Quest’ultimo messaggio dell’autrice trovo abbia un che di eroico dal punto di vista femminile, insieme alla condanna di ogni guerra. Dice Pierre: “La memoria di un popolo è una cosa terribile … viscerale … Nel ’14 eravamo innocenti come neonati. In guerra ci andavamo decisi, convinti. Ma loro [i più giovani] … hanno capito che tutti i sacrifici sono stati inutili, che non c’è stato nessun vincitore”. È il caso di chiedersi a distanza di un secolo se di fronte alla distruzione in Ucraina abbiamo davvero capito che la guerra non produce mai nessun vincitore, almeno dal punto di vista dei popoli.