SANDOR MARAI
“IL MACELLAIO”
ADELPHI, MILANO, (1924), 2019, pp. 98
La situazione drammatica di guerra, per cui chiunque non infila l’elmetto e non si schiera apertamente per l’invio di armi viene accusato di collusione con il nemico, mi ha fatto venire in mente questo libro e come la dinamica divisiva della guerra seleziona gli individui adatti allo scopo. Tra l’altro lo stesso titolo è ampiamente attuale nel “dibattito” in corso. “Il macellaio” è l’opera di esordio di Sandor Marai, autore di cultura mitteleuropea, che scelse di scrivere in ungherese sua lingua madre. Antifascista convinto, visse gran parte della vita in esilio, cacciato dall’Ungheria prima dalla dittatura fascista e poi dal regime filo-stalinista, tra l’Italia e gli Stati uniti, dove morì suicida nel 1989 dopo la morte della moglie e del figlio. Si definì sempre “un borghese”, nonostante le origini nobili. Difficilmente tradotto, è stato riscoperto di recente: è uscito da Adelphi nel 2019. Egli scrive il romanzo breve, quando aveva all’attivo solo due raccolte di poesie. Rivela, però, un robusto talento di narratore. In una novantina di pagine traccia l’intera parabola della vita di Otto Schwarz, nato nel Brademburgo, interamente tedesco.
La parabola narrativa è compresa tra due eventi tragici: il concepimento in occasione di una morte feroce e la fine. Il suo destino sembra essere il sangue. Viene concepito la notte, in cui i genitori (il padre, sellaio, “con l’aria fiera da stimato artigiano”, e la madre “accanto a lui, tutta rattrappita, come la cattiva coscienza, … sterile e sempre mesta”) assistono ad uno spettacolo circense funestato da un incidente mortale. Otto nasce robusto, “sprizza salute da tutti i pori”, la madre muore dandolo alla luce ed è allevato da una balia ottusa che diventa la nuova moglie del padre. Alla salute fisica esuberante si oppone una coscienza morale gracile, che sembra adombrare il rapporto del padre con la madre e la balia.
Dunque una personalità non amorale, ma semplice e ostinatamente subalterna. Otto cresce senza interessi e vocazioni. Assiste da bambino per caso alla macellazione di un bue, ne rimane affascinato e ripete la scena per gioco quasi uccidendo una macilenta bambina. Si giustificherà: “bisognava abbatterla, perché era così malandata”. Otto passa una giovinezza indolente incapace di portare a termine “il benché minimo lavoro costruttivo”. Il padre si rassegna a portarlo a Berlino per impiegarlo come garzone al mattatoio. I due provinciali sono colpiti dalla città tumultuosa, ma sono rassicurati dall’immagine del kaiser che la governa. Un’immagine dell’imperatore sta anche a casa loro significativamente sopra il crocifisso.
Otto viene mandato al fronte nella grande guerra: qui si esprime compiutamente la passione per il sangue. È di grande potenza la scena del primo assalto, quando infilza con la baionetta il primo nemico. Diventa famoso per i corpo a corpo e per la disinvoltura nel condurre le azioni più cruente; merita una medaglia, che gli viene appuntata sul petto dal kaiser, un omino molto meno marziale di quello del ritratto. Torna a casa dopo la sconfitta della Germania con le truppe rivoluzionarie, ma si chiude in casa, uscendo di notte e passando da un bicchiere all’altro fino al tragico epilogo, lascio al lettore la suspense. Molte recensioni interpretano la passione di Otto per il sangue come una malattia, una propensione morbosa, ma Marai ci mette in guardia dalla semplificazione. Riporta le testimonianze dell’inchiesta di cui il protagonista è oggetto: le donne, che frequenta (prostitute e servette in carne, mai una donna intesa come “oggetto d’amore” intero), escludono che fosse un sadico; il suo maestro macellaio attesta che egli rifiutò il rito di iniziazione, “il brindisi di sangue”.
Nel libro tali testimonianze anticipano la vera iniziazione: il colpo mortale di baionetta per obbedienza al kaiser. Il sangue non è il suo destino individuale, è quello di un intero popolo “sano” ed obbediente agli ordini superiori, asservito al mito della superiorità della razza, del sangue. La tragedia finale si apre con il viaggio di ritorno alla città natale dove nel baule dei ricordi trova il quadro “con il vetro rotto e sporco” del kaiser. Il recupero dell’immagine dell’obbedienza infantile è ambivalente, “in grado di smuovere qualcosa nella sua coscienza, rendendolo però smanioso e scontento di sé”.
Marai coglie il destino del sangue che nella violenza della guerra segna il popolo tedesco e la maggioranza degli europei. Coglie lo “spirito del secolo”, ma in termini opposti a quelli del personaggio di Scurati in “M. Il figlio del secolo”: non vi è alcuna grandezza in Otto, ma solo esuberanza fisica e povertà morale. Marai, che scrive nel 1924 (a soli 24 anni), traccia una biografia, che rappresenta l’allegoria dell’intero Novecento con la capacità profetica di delineare la barbarie che sconvolgerà l’Europa e segnatamente la Germania.