CLARICE LISPECTOR
“LA PASSIONE SECONDO G.H.”
FELTRINELLI, MILANO, (1964) 2020, pp. 143
E’ considerato il capolavoro di Clarice Lispector (1925-1977), autrice in lingua portoghese, nata in Ucraina da una coppia di emigranti russi ebrei che fuggivano per sottrarsi ai pogrom di allora, ma vissuta in Brasile a Recife dall’età di due anni e poi laureata in legge a Rio de Janeiro. E’ considerata la maggior scrittrice brasiliana del Novecento. Dunque con queste premesse è un libro da leggere, per quanto arduo. Mo è stato consigliato da Monica della Palomar di Grosseto, perché cercavo un romanzo corto (la mia passione), ci ho messo tre settimane a finirlo, prendendolo a piccole dosi; richiede un lettore “accanito”, ma merita come scrittura sperimentale
La trama è piuttosto esile: una donna sicura di sé, una signora che abita un attico di Rio, denominata solo con le sue iniziali, G.H., incise sulla pelle delle sue valige (“ho finito con l’essere il mio nome”, dice), una mattina qualsiasi decide di riordinare il suo appartamento. La realtà sta all’esterno: di fronte alla sua casa da benestante si vede “la favela, il villaggio dei poveri, sulla collina”, apprenderemo dopo, che apre sul paesaggio desertico dell’Asia Minore, uno scenario biblico (“fra temila anni il petrolio segreto sarebbe scaturito dal quelle sabbie” così “come una donna che non ha mai avuto figli ma li avrà fra tremila anni”). Il racconto oscilla continuamente tra la scena attuale e quella biblica, così come la passione a cui allude il titolo è insieme quella a tutto campo della donna e quella del Cristo (“La condizione umana è la passione di Cristo”). Non casualmente il libro è stato definito da alcuni critici “mistico”. In realtà tende a dire sempre due cose insieme: perciò è “simmetrico” nel senso dello psicoanalista cileno Ignacio Matte Blanco. Dal mio punto di vista è un “conte philosophique”, irto di concetti e di simboli, operazione che la Lispector cita direttamente una sola volta (“Ah, divento talmente diretta da sembrare simbolica”).
Dunque G.H. decide di cominciare il riordino della casa dalla stanzetta, abitata fino al giorno prima da una domestica di colore, che se ne è appena andata. La stanzetta è assolata come il deserto e ridotta dalla domestica ad una cella con pochissime suppellettili e con le valige siglate della padrona. Janair (è il nome della domestica, la “Janara” nei dialetti spagnoleggianti meridionali è il nome affibbiato alle streghe) ha graffito su una parete l’immagine della signora con un uomo e un cane. L’autrice usa per identificarla termini, che hanno un sapore di superiorità razzista (“negrore”o peggio “negrume”), ma la definisce “una regina africana. E che lì, dentro casa mia, si era istallata, la straniera, la nemica indifferente”. E’ la realtà della cose che preme per entrare nel mondo dorato della signora, fatto di cene, balli e begli abiti, come la favela che si vede dalla finestra. G.H. non nasconde la propria “tranquilla e compatta rabbia” contro la domestica. In questo scenario assolato e deserto avviene l’intera vicenda, in cui con terrore la protagonista incontra qualcosa di ancora più primitivo e inquietante: “un negrume di blatte” (e “la memoria della mia povertà al tempo dell’infanzia, con cimici, infiltrazioni d’acqua, blatte e topi, era come se appartenesse a un mio passato preistorico”). Dal buio dell’armadio, uno dei pochi arredi della stanzetta, definita di volta in volta “minareto” o “oratorio” (“Le passioni sotto forma di oratorio”), emerge una blatta, che ella uccide schiacciandola tra un’anta e l’altra e ne fa venire fuori la “materia molliccia e bianca”, di cui è fatto l’animale, descritto come pre-umano (“una blatta così vecchia da essere immemorabile”).
Ne deriva una regressione della protagonista fino alla identificazione con la blatta, di cui finirà per mangiare la materia interna, descritta come neutra. Questa regressione, che potremmo definire freudiana, dall’umano al primitivo e poi al pre-umano dà avvio a un monologo interiore, che ricalca la forma del flusso di coscienza tipico del romanzo modernista, organizzato in una serie di brevi capitoli non numerati, dei quali ognuno prende le mosse dalla frase con cui si conclude quello precedente e che quasi funge da titolo senza soluzione di continuità.
Il racconto si organizza intorno a due coppie di opposti: la prima parte è dominata dalla coppia: “umido/asciutto”; la seconda dalla coppia “neutro/salato” per finire al neutro insipido in un continuo slittamento verso il neutro totale, che non è né maschio né femmina e tende a coincidere con le cose tutte e con Dio secondo un’ipotesi panteistica. È stato notato come in questo percorso ci sia un ritorno del represso (Francesca Ruina in “Doppio zero” del 1° aprile 2016), che è – a mio avviso – prima sessuale e poi non sociale (come è nell’ipotesi di Orlando), ma pre-umano. L’umido della prima parte sicuramente rimanda al sessuale, a cominciare dall’accenno iniziale alla “terza gamba”, che manca alla protagonista, fino al procedere del dialogo con un “tu istituzionale”, quasi montaliano. “La vita, amore mio, è una seduzione grande, dove tutto ciò che esiste si seduce. Quella stanza che era deserta e pertanto primariamente viva. Io ero giunta al nulla, e il nulla era vivo e umido”. L’Edipo è dichiarato esplicitamente: “amore mio la verità non può essere cattiva. La verità è quello che è … deve essere la nostra grande garanzia, così come l’aver desiderato il padre o la madre è tanto fatale da essere stata necessariamente la nostra base”. La regressione va oltre nel viaggio vertiginoso a ritroso della protagonista: “al mio bacio la tua vita più profondamente insipida mi era data, e baciare il tuo volto era scipito e diligente lavoro paziente d’amore, era donna che tesse un uomo” .
Nel progressivo slittamento la voce narrante arriva al “pre-umano” e all’”inumano” delle cose inanimate in un processo di disumanizzazione: “ascolta, davanti alla blatta viva, il peggio è stato scoprire che il mondo non è umano, e che noi non siamo umani”. Non è un caso che nella stessa pagina una generica donna si mette “a quattro zampe” e viene detto che “talvolta la vita ritorna”. E’ un rimosso più generale che ritorna, la vita stessa, “la parte-cosa delle persone … la parte-cosa, materia del Dio”. Alla disumanizzazione non viene attribuito il significato negativo del senso comune. Per comprendere questo bisogna ricorrere all’idea inconscia del “simmetrico” di Matte-Blanco, che non è né maschio né femmina, perché è semplicemente indifferenziato, cioè è contemporaneamente questo e quello. Quindi nel libro ci troviamo progressivamente non solo al riemergere del rimosso sessuale e sociale, ma anche al riemergere di un pre-esistente inconscio pre-umano.
Per questa via la voce narrante arriva alla “spersonalizzazione come destituzione dell’individuale inutile … c’è stato il momento in cui ho visto che la blatta e la blatta di tutte le blatte, così voglio, da me stessa e in me stessa, ritrovare la donna di tutte le donne”.
Il racconto finisce con alcune considerazioni sullo”splendore di avere un linguaggio” come destino umano: “il linguaggio è il mio sforzo umano. Per destino devo andare a cercare e per destino torno a mani vuote. Però – ritorno con l’indicibile” . Questa è la scommessa della Lispector: dire l’indicibile in un continuo rovesciamento di fronti, che lascia sbigottito il lettore. E’ una scrittura che definirei “ossimorica” o simmetrica che tiene insieme cose diverse anche opposte, che pretende di discendere all’inferno e insieme di accedere ad un paradiso delle cose neutro: “non essendo, io ero”; “avrei realizzato il mio destino specificamente umano solo se mi fossi consegnata … a ciò che non era già più io, a ciò che è ormai inumano”.