ROMANO LUPERINI
LA RANCURA
MONDADORI, MILANO, 2016, pp. 306
In prossimità della giornata del ricordo (10 febbraio), come al solito strumentalizzata in questi giorni dai neo-fascisti per gettare discredito sulla Resistenza partigiana, propongo questo quarto romanzo di Luperini, il primo presso un grande editore. La sua prima parte racconta della guerra partigiana sul confine sloveno, quello di cui ci dovremmo ricordare in base alla legge istitutiva della giornata del ricordo in continuità e non in contrapposizione con la giornata della memoria (27 gennaio). In realtà numerosi partigiani italiani finirono nelle foibe a testimoniare che non si trattò di una “vendetta comunista”, ma di una e non giustificabile rivalsa anti-italiana per le nefandezze del cosiddetto “fascismo di confine”, particolarmente feroce con i popoli slavi. Ricordiamo che le leggi razziali fasciste del 1938 furono promulgate con un discorso di Mussolini fatto a Trieste contro gli slavi,
Conoscevo i materiali precedenti da cui prende le mosse il libro e che del resto sono citati nella lunga nota finale dell’autore. Il romanzo mi piace per la capacità narrativa dell’autore e per la sua risposta di fronte al rischio di morire e di fronte alla morte della critica letteraria, a cui ha dedicato gran parte della vita. La scrittura è incisiva e potente per molti versi, anche se la terza parte appare forse più debole, come se Luperini scrivesse di qualcosa di meno noto. È la più faticosa, quella più “inventata” e piegata alle esigenze “ideologiche” della scrittura, per quanto intelligente nell’allusione alla costruzione del romanzo; se ne trova in controluce la spiegazione interna della costruzione, in cui l’autore parla dopo la propria morte e della propria morte.
Particolarmente riuscita è la prima parte, “il memoriale sul padre”, che riprende “I salici sono piante acquatiche” (Manni, Lecce, 2002), tratta dalla guerra partigiana e dalla vita contadina, che rappresenta un fondo autobiografico essenziale dell’autore, compresa la figura del nonno solo apparentemente fuori della sequenza trigenerazionale (in realtà anche lui è dentro “la rancura” del proprio figlio, il padre dell’autore, nel libro il comandante partigiano Luigi Lupi). E’ una storia potente con cui Luperini deve aver fatto i conti molte volte in vita sua: è duro avere un padre rivoluzionario (per giunta vincente) ed essere a sua volta tale senza riuscire a vincere. C’è una rancura edipica e politica insieme, cioè un mix di due emersioni dell’inconscio, sia quello libidico sia quello ostile di tipo politico-sociale.
I disperati anni 50 sono descritti nella seconda parte con grande realismo e molto riusciti. La terza parte riprende alcuni materiali de “L’età estrema” (Sellerio, Palermo, 2008). Viceversa non vi è un riferimento a “L’uso della vita, 1968” (Transeuropa, Massa, 2014), se non in maniera indiretta. Vi deve essere una ragione nella costruzione di questa linea, che salta un intero arco temporale ricostruito tutto per ricordi e flashback del periodo romano allusivo alla militanza in Democrazia Proletaria, “a giochi fatti rispetto al 68”. Essa rimanda al “significato secondo” del romanzo, tanto caro al Luperini critico, al suo allegorismo.
Il 68 è vagheggiato come una stagione feconda di gioco, presto perdente, eccetto in alcuni esiti emancipativi del movimento femminista. La materia del racconto è organizzata secondo una linea realista, dura e nera: la vita è una sequenza insensata di avvenimenti in cui solo per caso si può seguire la cresta dell’onda e trovare un filo significativo. Solo le nostre azioni, che colgono il senso della storia, danno alla vita un significato. C’è un’idea materialista in questo (rivendicata nel dialogo con l’amico Franco morente), cioè vi è un senso delle cose storiche, quelle che possono dipendere dalle azioni umane, ma non vi è alcun senso nel ripetersi senza fine di quanto avviene nel mondo oggettivo della materia, cioè possiamo attribuire un senso alla vita solo con l’azione soggettiva a partire dalle condizioni concrete.
Trovo in questo la “rancura”, termine antico, dantesco, ripreso da Montale, cioè il rancore sordo di ogni figlio verso il padre una lettura parziale della storia, che rimanda ambiguamente anche a quella che i cultori delle dinamiche psicologiche familiari chiamerebbero una “lealtà familiare”. Tutti e tre i personaggi del romanzo Luigi, Valerio e Marcello (nomi classici e in qualche modo bianciardiani), coltivano la scrittura e la memoria, uno dell’altro. Quindi vi è a fianco alla rancura dei figli contro i padri, una continuità che la contrasta. Il libro, come disvela la nota finale, è un tributo a tre diversi generi letterari, di cui due contemporanei: la “docufiction” della prima parte, l'”autofiction” della seconda parte, mentre la terza è un racconto inventato in terza persona che utilizza “finti” documenti, lettere, mail, tracce scritte. Quindi nella struttura transgenere vi è una traccia dell’allegoria che informa il romanzo. E’ un tributo alla teoria di un ritorno alla realtà della letteratura per cui milita Luperini critico.
Nel complesso è un romanzo potente che abbraccia 70 anni di storia.