TIRLI – “Questa è la più maremmana delle leggende. Si riferisce a Tirli, il più maremmano dei paesi grossetani e, contemporaneamente, ad un cinghiale, il più maremmano degli animali”.
A narrare la più maremmana delle leggende è Alfio Cavoli, mancianese scrittore e studioso di tradizioni popolari della Maremma, rifacendosi ai racconti del suo amico Fiorenzo Corsali, che la riportò nel suo libro “Tradito da un gallo. Storia e tradizioni di Tirli in Maremma”.
La favola racconta di due fratelli, Ferdinando e Ferruccio Signori, che un giorno come tanti si recarono a cacciare nella macchia castiglionese, nei pressi di Tirli (Castiglione della Pescaia), dove vivevano.
Giunti nel punto dove la terra era grufolata – segno inequivocabile della presenza di cinghiali -, liberarono i cani nella speranza di individuarli. Subito i segugi ne stanarono uno, e iniziarono ad inseguirlo.
Anche Ferdinando e Ferruccio si misero in corsa verso l’animale, ma questo, improvvisamente, cambiò senso di marcia, e quasi travolse i due fratelli.
Ferruccio iniziò a sparare, e scaricò il fucile sul cinghiale, che riuscì a proseguire sanguinante per qualche metro per poi accasciarsi esanime nel bosco. Ma invece di tirare il suo ultimo sospiro, dalla sua bocca uscirono fiamme. I fratelli, spaventati si allontanarono dal corpo dell’animale, per riavvicinarsi una volta che il fuoco si era esaurito.
Accertata la morte del cinghiale, i due fratelli passarono a sventrarlo con i loro coltelli. Le budella andarono ai cani, come premio della loro conquista, mentre il fegato se lo presero per loro, per portarlo a casa e farlo cucinare subito dalla loro madre. Nascosero il corpo dell’animale sotto dei rami, per essere sicuri di ritrovarlo una volta che sarebbero tornati con il ciuco a riprenderlo.
Arrivati a casa, la mamma, felice dell’esito della battuta di caccia che avrebbe garantito carne per molti giorni alla famiglia, appese alla catena del focolare il paiolo con l’acqua per preparare la polenta e si apprestò a cucinare il fegato del cinghiale in una padella, nella quale versò una buona quantità di olio per realizzare il piatto a puntino.
Una volta scaldato l’olio, la donna buttò nella pentola i pezzi di fegato, ma questi rimbalzarono e caddero sul camino. La massaia rimase di stucco: “Sono animati dal demonio”, esclamò. Fu allora che Ferruccio raccontò alla madre come il cinghiale, prima di morire, spirò fiamme dalla sua bocca.
Collegando i due fatti, i fratelli Signori, sospettando che l’animale fosse davvero posseduto dal demonio, corsero nel bosco dove avevano lasciato il corpo. Una volta arrivati sul luogo, con stupore scoprirono non solo che l’animale smembrato non c’era più, ma non c’era neanche nessuna traccia del suo sangue, perso in copiosa quantità durante lo smembramento. Si fecero subito il segno della croce e corsero dalla madre, alla quale raccontarono tutto l’accaduto. La donna, così, staccò il rosario dal muro e iniziò a pregare con devozione.
Il giorno dopo in paese non si parlava d’altro, e così si fece per molto tempo: ogni tirlese formulava la sua ipotesi sul prodigioso evento, allo stesso modo degli abitanti dei paesi vicini. Il fatto, del resto, era diventato argomento di discussione in tutta la Maremma.
Era il 1758: è scritto su una pietra che i fratelli Signori lasciarono accanto all’edicola votiva con l’effige della Vergine che i due cacciatori fecero costruire sul posto in ricordo di quella loro incredibile esperienza. Quel luogo nel tirlese prese così il nome di “La Madonnina”.