CARLO EMILIO GADDA
“LA CASA DEI RICCHI”
ADELPHI EDIZIONI, MILANO, 2020, pp. 87
Ho pescato questo libricino alla libreria Palomar, proprio perché piccolo (è la tipologia che preferisco) e perché rimanda ad un celebre capolavoro. La casa editrice Adelphi sta pubblicando tutte le opere di Carlo Emilio Gadda, uno degli autori più grandi della letteratura italiana, che ha influenzato molto il nostro Bianciardi. Soprattutto è un novatore della lingua, uno scrittore sperimentale. In questo caso uno dei curatori delle opere di Gadda presso Adelphi, Giorgio Pinotti, pubblica questo inedito per la nuova collana “Microgrammi”, che fa riferimento a testi di piccole dimensioni. Il riferimento è al capolavoro dell’autore, “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, a cui allude il titolo del testo inedito. Come è noto il “Pasticciaccio” è un romanzo con una trama apparentemente gialla, in realtà ingarbugliatissima (uno “gliuommaro” come lo definisce il commissario abbruzzo-napoletano, Don Ciccio Ingravallo), soggetta a continue varianti, che corrispondono alla modalità creativa dell’autore ed anche ad un suo modo complesso di concepire il mondo. Tant’è che la versione pervenutaci, quella pubblicata da Livio Garzanti nel 1957, non sembra compiuta, non si capisce con chiarezza chi è l’assassino come viceversa succede in ogni romanzo giallo. Concepito tra il 1945 e il 1946, nell’euforia della fine della guerra e della caduta del fascismo (con strali feroci ed esilaranti contro il “Predappiofesso”), il “Pasticciaccio” esce prima in cinque puntate su “Letteratura” (1946) ed è “un romanzo in progress”, come lo definisce il curatore per poi trovare una veste definitiva ed il successo presso il grande pubblico undici anni dopo. Gadda promise a Garzanti un secondo volume che non scrisse mai. In mezzo ci stanno le varianti, una delle quali è il testo ora dato alle stampe. Nel 1948 Gadda, ingegnere, ma all’epoca giornalista e scrittore apprezzato da una ristretta cerchia di critici, viene invitato dalla Lux Film a produrre un soggetto cinematografico ricavato dalle cinque puntate uscite su “Letteratura”. L’autore sempre a caccia di nuovi ingaggi per ragioni economiche, è un “anticipista”, cioè ha bisogno per il proprio lavoro di essere pagato in anticipo. Egli produce un soggetto di ottanta pagine. Pinotti riporta la testimonianza di Piero Gadda Conti: “Pare che la redazione del soggetto sia troppo lunga: bisognava compendiare”. La versione lunga è nota come “Il palazzo degli ori”, appunto quello di Via Merulana 219 (civico effettivamente esistente), dove avvengono i due delitti, che poi si aggrovigliano inestricabilmente tra loro: il furto dei gioielli della vecchia contessa Menegazzi e l’assassinio della ricca signora Liliana Balducci, continuamente presa dalle sue “pupille”, che ella tratta come figlie a compenso della sua mancata maternità. La versione “compendiata” è la presente, “La casa dei ricchi”, il cui autografo “è custodito presso l’Archivio gaddiano di Arnaldo Liberati … a Villafranca di Verona: consta di 31 ff. scritti sul recto e sul verso in inchiostro nero”. Il soggetto contiene un “Indice dei momenti visivi”, che individua 40 scene, poi puntualmente sintetizzate con gli opportuni rimandi tra una scena e l’altra. È ancora l’idea di un soggetto, né un vero “trattamento” (cioè una riduzione per il cinema), né una sceneggiatura compiuta. In questo caso l’indeciso ingegnere per ovvie ragioni è costretto a dipanare la matassa e ad indicare sia l’autore del primo furto sia l’assassino della signora Liliana e l’ultima scena si chiude così: “Sulla porta della cucina aperta verso il tramonto si staglia la nera figura di Ingravallo, seguito da carabinieri ed agenti”, giunto a catturare l’assassino. Ovviamente non rivelerò i due nomi, né del ladro né dell’assassino, per lasciarne la scoperta alla curiosità del lettore. Il soggetto cinematografico ha l’indubbio vantaggio di indicare l’ossatura della vicenda romanzesca, che si divide tra l’ambiente alto borghese del centro di Roma e quello degradato delle periferie dei Castelli. Lo “gliuommaro” sta tutto nello scontro tra questi due mondi: uno ricco e perbenista, dove le passioni navigano nel fondo (si è discusso su una versione esplicita del lesbismo di Liliana verso le sue “pupille”), e l’altro primitivo e violento intriso della lotta per sopravvivere, “l’invidia dei poveri”. In questo scontro c’è l’emergenza violenta e passionale dell’inconscio, che porta al delitto e che riflette l’idea di Gadda del mondo come trama caotica e ingovernabile. Scrive il curatore: “In altri termini: instancabile attenzione allo scheletro della narrazione e mostruosa amplificazione del dettaglio. Tutte le opere di Gadda vivono di questo instabile equilibrio”. Il tentativo di governare la materia caotica spiega l’alto numero delle varianti e la figura del dipanatore della matassa, il commissario Ingravallo, segugio ed insieme partecipe del mondo su cui indaga. Ciò che il soggetto cinematografico perde del romanzo e dell’arte di Gadda è lo spassosissimo plurilinguismo, che si muove tra il dialetto abruzzese e partenopeo del commissario e il romanesco di tutti i personaggi proletari. Rimangono alcuni arcaismi della lingua usata, che attestano come Gadda si adegui malvolentieri all’italiano standard: la “risvegliata cupidità”, “la rapinata signora”, “il dì prima”. Si perde anche il riferimento, anch’esso di irresistibile ironia nel romanzo, ai primi anni del fascismo, che nel soggetto non figura affatto. Forse nell’euforia della ricostruzione (il romanzo è del 1945, l’idea della sceneggiatura del 1948) ha già oscurato i conti con il fascismo, che erano doverosi e che non furono mai fatti compiutamente
Per la cronaca ci fu successivamente un tentativo di riduzione cinematografica del “Pasticciaccio” per Michelangelo Antonioni, poi realizzato con piglio sicuro da Pietro Germi (“Un maledetto imbroglio, 1959). Una riduzione televisiva fu portata a termine con lo stesso titolo del romanzo nel 1983.