WILLIAM SHAKESPEARE
“AMLETO, PRINCIPE DI DANIMARCA”
NEWTON, ROMA, (1600-1601), 1993, pp. 98\
Ho pescato nella mia libreria questo vecchio volume di un’opera teatrale classica per verificare sul testo quello che di solito si vede solo sul palcoscenico.
Questa tragedia è una delle più grandi scritte da Shakespeare. Il suo protagonista ha fama universale lungo i secoli; il “dubbio amletico” è famoso per antonomasia. Chi – anche illetterato – non conosce il famoso “essere o non essere, qui sta il problema” (atto III, scena prima)? L’indecisione del principe di Danimarca è un fatto assodato, passato in proverbio. Nell’ultima scena tutti muoiono avvelenati, nessuno in modo diretto, in duello. Amleto morente con le sue ultime parole suggella la vanità del tutto: “il resto è silenzio”.
Egli consegna il regno a Fortebraccio, che guida l’esercito avversario e gli tributa gli onori militari: “sono certo che avrebbe dimostrato indole da re”. Eppure Amleto non si risolve fino all’ultima scena ad assolvere il mandato del padre di vendicare la sua morte. Egli nel corso del dramma si dimostra capace di soluzioni estreme: uccide senza colpo ferire Polonio, il cortigiano, che origlia le sue parole dietro una tenda per riferirle allo zio usurpatore del trono paterno; non esita con uno stratagemma a mandare a morte al suo posto i due cortigiani, Rosencrantz e Guildestern, incaricati dallo zio di consegnarlo agli inglesi perché lo mettano a morte. Lascio alla curiosità del lettore il marchingegno teatrale che conduce alla fine la tragedia che lascia aperto il dilemma: perché Amleto, per tanti versi un principe rinascimentale altrimenti tanto determinato (come dice Freud), rimane così incerto fino alla fine?
La trama è semplice: in palio c’è il regno di Danimarca, nel cui castello regale di Elsinore avviene la scena, rispondendo ai criteri aristotelici di unità di luogo e di tempo della tragedia. Amleto è il principe ereditario, il padre è il re, che muore anzi tempo, e subito dopo lo zio ne eredita il regno e ne sposa la regina, Gertrude. La situazione è a più riprese definita “incestuosa” e descritta dall’usurpatore come un triangolo: “la regina sua madre non vive che per i suoi occhi, ed ella per mia fortuna o maledizione non so, è una cosa sola con la vita dell’anima mia” (atto IV, senza terza). La stessa regina dice che si tratta della “natura del peccato” (atto IV, scena prima). Lo spettro del re morto compare nel castello, rivela ad Amleto che è stato ucciso dal fratello con il veleno mentre dormiva e chiede al figlio di essere vendicato. Il figlio non riesce a risolversi, si finge pazzo e organizza uno spettacolo teatrale per smascherare lo zio assassino. E’ interessante notare l’uso del veleno, un’immagine sovra-determinata, che insieme è lo strumento di morte tipico dell’epoca rinascimentale (ricordiamo i Borgia per esempio), ma rappresenta anche il sottile insinuarsi del peccato e della colpa come il serpente (l’usurpatore lo inocula nell’orecchio del vecchio re).
Altrettanto interessante per la trovata formale è lo spettacolo dentro lo spettacolo: fingendosi folle Amleto fa rappresentare ad una compagnia di attori di passaggio una scena in versi scritti da lui, in cui svela come e chi ha ucciso il padre (atto II, scena seconda), per poter leggere sul volto del traditore l’emozione che lo tradisce. Il meccanismo, che svela il segreto dell’assassinio come in un giallo moderno, rivela anche l’idea che aveva Shakespeare del teatro come capace di dire la verità attraverso la finzione. C’è anche dentro una nota polemica contro il “teatro comune” a lui contemporaneo. Freud, che cita ripetutamente l'”Amleto” nei suoi scritti, in particolare ne “Il motto di spirito” (1905), fornisce un’interpretazione calzante della famosa indecisione di Amleto ne “L’interpretazione dei sogni” (1899): “Che cosa … lo inibisce nell’adempimento del compito che lo spettro di suo padre gli ha assegnato? Amleto può tutto, tranne compiere la vendetta sull’uomo che ha eliminato suo padre prendendone il posto presso sua madre, l’uomo che gli mostra attuati i suoi desideri infantili rimossi.
Il ribrezzo che dovrebbe spingerlo alla vendetta è sostituito in lui da auto-rimproveri, scrupoli di coscienza, i quali gli rinfacciano che egli stesso, alla lettera, non è migliore del peccatore che dovrebbe punire. Così ho tradotto in termini di vita cosciente ciò che nella psiche dell’eroe deve rimanere inconscio”. Dunque l’intera tragedia appare un massivo riemergere del rimosso inconscio e secondo l’ipotesi aristotelica essa rappresenta la catarsi emotiva dei problemi inconsci di ogni spettatore: ognuno di noi ha vissuto il desiderio infantile di possedere la madre e di eliminare il padre che si frappone a questo suo desiderio inconscio. E’ interessante una delle battute che Freud riprende dall'”Amleto” per mostrare la tecnica arguta dei “motti di spirito” (1905): “Ci sono più cose in cielo e in terra … di quante ne sogni la … filosofia” (atto I, scena quinta). Di solito questo viene inteso che non tutto è spiegato dalla conoscenza razionale, ma credo che ha anche il senso che molte cose risiedono dell’inconscio e richiedono un lungo lavoro per emergere alla coscienza, l’arte fa parte di questo lavoro.