GROSSETO – Alcuni lettori di questa rubrica si sono lamentati dicendo che le recensioni pubblicate non sono di facile lettura.
Posso essere d’accordo: allora ho pensato ad un nota metodologica, per far capire come nello scrivere le 50 recensioni uscite sino ad ora ho incrociato due metodi: quello allegorico, che fa riferimento alla metodologia di Romano Luperini, che è il direttore della rivista “Allegoria per uno studio materialistico della letteratura”, della cui redazione faccio parte dal 1985, e quello psicoanalitico, che è mio campo di interesse professionale, così come è stato proposto da Francesco Orlando.
Leggere libri in base a ciò che piace o al gusto personale è un criterio accettabile dal lettore medio, ma l’ho sempre trovato un punto di vista troppo soggettivo ed idealista, improntato ad una filosofia estetica, quella di Benedetto Croce, che ha segnato l’epoca della unica reale riforma della scuola, quella Gentile di marca fascista, i cui effetti durano ancora oggi nella formazione del lettore italiano medio. Ho sempre preferito un approccio più politicamente “impegnato”, che punta a capire quale è il “significato secondo” di quanto si legge: “la morale della favola”, quello che l’autore letto ci vuol trasmettere con la sua storia.
Francesco Orlando nel campo della critica letteraria parte dal saggio “Il motto di spirito” di Freud (1905), considerato molto più produttivo di quelli prevalentemente pato-biografici su Leonardo da Vinci, Dovstoevskj, la Gradiva ed altri. In estrema sintesi i motti di spirito (le “barzellette”) per Freud rappresentano l’emersione dell’inconscio, soprattutto nella sua parte erotica e libidica (le storielle sconce sono infinite), ma esistono anche le battute salaci ed ostili (ad esempio lo sterminato “sfottò” in cui noi italiani, soprattutto meridionali, siamo maestri, noto anche a Giacomo Leopardi), nelle quali emerge l’aggressività più o meno rimossa dell’inconscio. Per Orlando tale ipotesi è la base per ritrovare nelle narrazioni letterarie (di cui i motti di spirito, le storielle, sono per così dire l’unità elementare) sia il “ritorno” del rimosso erotico che aggressivo, cioè quello che per le forme sociali non possiamo esprimere troppo scopertamente della sessualità e dell’ostilità. Ciò avviene sia per l’erotico, ma anche per il rimosso politico-sociale, che veicola punti di vista ostili agli assetti dominanti. L’ironia e la satira come forme o generi letterari fanno parte di quest’ultima categoria.
Il secondo metodo, quello allegorico, prende le mosse da un antico “tropo retorico”, appunto l’allegoria, definita “un’allegoria continuata” da Aristotele, cioè una forma narrativa che costruisce un intero mondo, teso a far conoscere al lettore come stanno le cose. Tanto il metodo basato sui simboli è vago, allusivo e analogico, tanto quello allegorico è puntuale, razionale e costruttivo (digitale potremo dire nelle sue corrispondenza). Si pensi all’allegoria dantesca e all’enorme costruzione che regge: la “Divina Commedia”, dove trovano posto come nella vita – guarda caso – sia l’erotico (ad esempio Paolo e Francesca) che il satirico politico drammatico (ad esempio il Conte Ugolino). L’allegorismo moderno è un modo per narrare e far capire attraverso immagini concrete di estremo realismo quanto il nostro modo di vivere sia alienato e sempre di più subalterno al consumismo e al mercato. Luperini, che viene dalla critica letteraria marxiana, ha fondato la concezione dell’allegorismo moderno proprio su una riflessione a proposito di Baudelaire e Benjamin sul nuovo rapporto tra il vecchio tropo (l’allegoria) e il mercato capitalistico e le merci elevate a feticcio, cioè ad una minuscola divinità persecutoria.
Il lettore più attento avrà già capito i punti di contatto tra i due metodi tesi a smascherare sia nei contenuti che nelle forme, quando è apparentemente nascosto sotto le convenzioni sociali sia sul versante erotico che su quello politico-sociale. E’ un modo per mostrare al lettore un punto di vista critico su come stanno le cose. Qualcuno mi accuserà di avere un intento “pedagogico” di insegnare agli altri una visione delle cose. La mia risposta è onestamente affermativa: non si legge soltanto per diletto, si legge anche per farsi un’idea propria del mondo. Secondo me l’arte come la scienza è un modo per conoscere il mondo. Dirò di più l’arte e la scienza sono le due parti costitutive di quel monumento sempre incompiuto che è la conoscenza umana (Jaques Monod, 1990). Nel pieno rispetto del punto di vista degli altri, metto a disposizione dei lettori di questa rubrica quel poco che so o penso di sapere, altrimenti non sacrificherei un paio d’ore del riposo domenicale per scrivere le recensioni.