CASTIGLIONE DELLA PESCAIA – Quando varcavi una delle porte del Ghetto cominciavi a respirare aria di “comunità”, di quella vera, solidale, profonda. Erano le pietre sconnesse dalle quali spuntavano ciuffi d’erba insieme alle sedie davanti ai portoni che ti facevano sentire in un mondo diverso. Gli odori del “cucinato” frammisti al profumo di salmastro che saliva dal mare caratterizzavano il posto.
Appena passata la chiesina, proprio davanti, il “pozzetto” dove in un lontano passato attingevano l’acqua le famiglie, e l’imponente salita che portava al Prato. A destra invece la via umida che, sempre all’ombra, conduceva alla porta con davanti il cimitero.
Ma era lo schiamazzo dei numerosi bambini festanti, intenti nei loro giochi fatti di legni, sassi e fantasia, che rallegrava il posto. Potevi sentirli mentre giocavano a rimpiattino o a guardie e ladri mentre le bambine, molto più calme, disegnavano col gesso “la campana” o la casa per le bambole.
Le case erano di “muri antichi”, spesso con il verde del muschio che saliva dalla strada sui perimetrali ed erano intrise di vita vissuta. A dominare il borgo, il Castello, simbolo di potenza e protezione. Il Castello che ci immaginavamo popolato da condottieri e dame con la crinolina ma che in realtà era un’abitazione come le altre, solo più maestosa.
E le eterne battaglie e sassaiole tra ghettaioli contro quelli un po’ con la puzza sotto il naso che abitavano in basso, finivano sempre in furibonde scazzottate che si placavano con un mezzo chinotto bevuto insieme dal Mariani o dal Nassi. Era il Ghetto che non c’è più.
La sera della tombola era una serata speciale, non solo per il gioco ma anche per il fatto che ci riunivamo grandi e piccoli. Era il tempo in cui nelle cucine troneggiava la stufa a legna e si sentiva il crepitio dei legni che bruciavano; era il tempo in cui il piano del tavolo era di marmo, di quel marmo adatto a preparare la sfoglia il sabato pomeriggio; era il tempo in cui si friggevano, nella padella nera, fettine, carciofi, patate, pane e dopo la si riponeva sotto la stufa coperta con un foglio di carta oleata e con l’olio dentro ancora buono per friggere un’altra volta.
Mamma preparava la farina e faceva una specie di cratere, poi metteva dentro le uova, e con la forchetta cominciava ad amalgamare aggiungendo un pizzico di sale. Il risultato era quel bel composto che veniva tirato, tirato con il matterello fino a farne una sfoglia finissima e porosa che poi con maestria veniva trasformata in tagliatelle, tagliolini o tortelli…
Era il tempo in cui si facevano i compiti sullo stesso tavolino con un orecchio teso ad ascoltare i discorsi dei grandi. Era il tempo in cui i mobili alla svedese avevano soppiantato quelli vecchi. I nuovi erano di colore marrone chiaro e con “formica” a profusione. Era il tempo in cui nel salotto le poltrone erano perennemente coperte dai teli e su un lato faceva bella mostra “la cristalliera” con dentro i bicchieri “buoni”.
Era il tempo in cui se entravi in salotto era freddo, perché veniva tenuto sempre chiuso e la differenza di temperatura con le altre stanze superava i 5/6 gradi. Era il tempo in cui esisteva ancora una comunità che amava riunirsi a “veglia”. Sotto le feste di Natale la veglia prendeva un nome nuovo e diventava gioco.
Tombola ma anche panforte, sette e mezzo o l’omo nero e poi più avanti Mercante in Fiera. Ma la tombola era la regina incontrastata perché univa bimbi ed adulti in un sentire comune : “l’aspettare il Natale”. In quelle serate in casa c’era un gran daffare, bisognava reperire le sedie, il cartellone e le cartelle per la tombola, i fagioli per segnare i numeri e c’era da tirare fuori i numeretti per controllare che ci fossero proprio tutti. Poi alla spicciolata arrivavano “i partecipanti”, zie, cugine e finalmente si poteva cominciare.
“Il cartellone lo tengo io” si affrettava a dire chi sperava che il poter estrarre i numeri dal sacchetto potesse contribuire a favorire le vincite. E poi l’ acquisto delle cartelle. “Per me due sole perché sennò non ce la faccio a mettere i fagioli”. Una volta consegnate le cartelle con le monete raccolte si facevano i mucchietti per i premi.
Poi cominciava il rito dell’estrazione. “Numero 6” e immancabilmente qualcuno diceva “uambo” e noi bimbi a ridere e tutti gli altri a criticare. “Smettila sennò qui ‘un ci si capisce più niente”
E poi ancora le altre estrazioni fino a quando qualcuno pronunciava “terno” affrettandosi a leggere i numeri ricoperti dai fagioli. Il cartellonista sentenziava “terno fatto” e il vincitore si allungava per prendere quel minuscolo gruzzoletto che costituiva il premio. “Stavo per uno su tre cartelle!”. “Mi rifarò con la quaterna”.
E si andava avanti per tutta la sera con la speranza di fare tombola o per lo meno cinquina tra battibecchi e battute, finché il sonno cominciava a far capolino e chi aveva il cartellone diceva “ultimo giro”… Zie e cugine tornavano a casa e noi, assonnati, aiutavamo a mettere un po’ a posto, dopo a letto sotto le coperte con la borsa dell’acqua calda e le calze di lana per non farci venire i “geloni”. Mi manca quella tombola e quelle serate in cui le sedie erano tutte piene.
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