CESARE PAVESE
“LA LUNA E I FALO'”
EINAUDI, TORINO, (1950) 1973, pp. 140
Pavese è considerato uno dei più grandi scrittori italiani, in particolare del primo Novecento. Era nato nel 1908 a S. Stefano Belbo nelle Langhe ed è morto suicida a Torino nel 1950 pochi mesi dopo aver pubblicato questo libro, che porta una vasta impronta della sua crisi esistenziale per altro durata per tutta la sua breve vita. Esordì come poeta con la raccolta “Lavorare stanca” (1936) e rimase poeta per tutta la sua parabola esistenziale, inventando anche una specifica metrica con un verso lungo doppio adatto alla narrazione. Fu anche traduttore dall’inglese, critico letterario ed editor presso Einaudi, il cui fondatore era suo amico insieme a Leone Ginzburg ed un gruppo di antifascisti vicini a “Giustizia e libertà”. Indubbiamente fu un intellettuale con una formazione europea e internazionale di alto livello, inusuale per la epoca della sua formazione intrisa di provincialismo italiota.
Il romanzo è contenuto in uno dei tanti elenchi dei cento libri da leggere a tutti i costi. È ambientato nei luoghi dell’infanzia di Pavese, ma il paesaggio non è trattato in maniera lirica, adattato ai sentimenti dei personaggi, è la rappresentazione realistica di una campagna costruita dalla fatica umana. Il tema del ritorno al luogo delle origini e dell’appartenenza domina l’intero racconto. Il protagonista, che riflette molte caratteristiche dell’autore, è un “bastardo”, un trovatello affidato ad una famiglia contadina in cambio di un modesto sussidio. Di lui sappiamo solo il soprannome, “Anguilla”, che allude ad una identità sfuggente e imprendibile.
“Dove sono nato non lo so” è l’inizio della storia. “Ero già un ragazzo fatto e il municipio non ci pagava più lo scudo, che io non avevo ben capito che non essere figlio di Padrino e della Virgilia voleva dire non essere nato in Gaminella, non essere sbucato da sotto i noccioli”. Anguilla dopo una lunga peregrinazione che lo porta prima a lavorare alla Mora, la cascina di un agiato proprietario, il Sor Matteo e delle sue tre belle figlie, Silvia, Irene e Santina; a conoscere Nuto, un amico di poco più grande di lui, falegname, suonatore di clarino, politicamente impegnato che gli fa da fratello maggiore e da mentore; poi a fare il soldato a Genova, dove si trova coinvolto con “i compagni” in pieno regime fascista; e a scappare con “un posto di fatica su un bastimento che andava in America”; a quarant’anni ritorna nelle Langhe alla ricerca delle proprie origini dopo aver fatto fortuna.
Non trova più i noccioli, al casotto di Gaminella trova un mezzadro disperato, Valino, che prende sistematicamente a cinghiate “le donne” della sua famiglia e che ha un figlio sciancato, Cinto, che per la sua malformazione sarà sempre un diverso. Anguilla lo tratta come se fosse un figlio e si identifica con lui. Nonostante che il vecchio amico Nuto continui a stare con lui e a raccontargli le storie del paese avvenute in sua assenza, Anguilla rimane estraneo: “era strano come tutto fosse cambiato eppure uguale”. A questa ricerca delle origini, dell’appartenenza perduta e mai posseduta davvero, la critica ha attribuito un significato mitico e simbolico, un mondo vagheggiato che sicuramente Pavese ha contribuito a costruire. Il protagonista si chiede “che cos’è questa valle per una famiglia che venga dal mare, che non sappia niente della luna e dei falò”, cioè delle fondamenta mitiche di questo mondo. La luna è presentata come il simbolo enigmatico, nebbioso e sfuggente.
Quando Anguilla ricorda l’America, il whisky e il fatto che “un vino da pasto non c’è …” (ricordiamo che le Langhe sono caratterizzate dalle vigne e dal vino), commenta “non c’è niente, è come la luna”. I falò della notte di San Giovanni sono antichi riti rurali propiziatori, ma qui sono degradati in due incendi disperati, quello che Valino appicca al casotto di Gaminella, dopo aver ucciso “le donne”, per poi impiccarsi (l’unico a salvarsi è Cinto, significativamente grazie al coltello che gli ha regalato Anguilla) e il falò di un corpo umano, che conclude tragicamente il romanzo, fine che non rivelerò nella sua significativa ambivalenza, lasciandola alla curiosità del lettore. Dunque questi simboli stanno inseriti in un tema esistenziale complessivo: non vi è possibilità di appartenenza, di ritorno alle origini, di un ritorno alla terra, al grembo materno. Tutto è illusorio. È quello che Pavese cerca e non trova fino a porre tragicamente fine alla sua vita. I simboli antichi nel loro degrado, dovuto alla modernità, stanno dentro una costruzione allegorica, che è anche un potente ritorno del rimosso e che investe l’intero romanzo.
“Le donne”, citate ripetutamente tale generalizzazione come di solito ne parlano i maschi tra loro, sono un mondo di fatto irraggiungibile, in cui non si può penetrare. Siano esse le donne che Valino brutalmente frusta e poi uccide, siano le figlie del Sor Matteo, che ambiscono a far le signore senza riuscirvi (Silvia muore dopo un aborto clandestino, Irene finisce in un matrimonio violento e Santina, la più giovane, la più bella e la più emancipata viene uccisa per il suo doppio gioco tra partigiani e repubblichini); siano come la donna americana con cui Anguilla convive in California e che potrebbe diventare sua moglie, ma che un bel giorno se ne va; tutte “le donne” sono lontane, remote, intoccabili, guardate da lontano da Anguilla (soprattutto nel periodo trascorso alla Mora).
Il romanzo è dedicato a Constance Dowling, l’ultimo amore fallito della vita di Pavese, con cui finiscono tutte le illusioni: subito sotto il titolo, “for C. Ripeness is all” cita un verso di Shakespeare dal “Re lear”: “la maturità è tutto”. E’ con tutta probabilità la dolente constatazione di Pavese, che – come scrisse nella sua lettera di addio prima di suicidarsi – ci aveva provato con tutto se stesso senza riuscirci. Senza voler ridurre tutto ad un particolare autobiografico, il suo problema esistenziale lo tenne tragicamente davanti alle porte del grembo femminile. Questo è il ritorno del rimosso che emerge nella struttura stessa del romanzo.