PRIMO LEVI
“LA CHIAVE A STELLA”
EINAUDI, TORINO, 1978, pp. 178
Il “romanzo” aumenta la mia stima e la mia ammirazione per l’autore. Ho scritto “romanzo” tra virgolette perché si tratta di racconti uno per ognuno dei capitoli: per la critica si tratta di un macrotesto costituito da quattordici racconti legati da una serie di costanti tematiche e strutturali. La costante strutturale è il dialogo che fa da contenitore della vicenda: quello tra Libertino Faussone, operaio specializzato nel montare tralicci ed altro in giro per il mondo, detto Tino, e soprattutto nominato col solo cognome secondo un vecchio uso operaio (ricordiamo Cipputi di Chiappori), e l’autore, un chimico che sta per scegliere di fare lo scrittore. E’ un passaggio autobiografico essenziale. La forma dialogica è un forma narrativa classica (ad esempio di molti romanzi di avventure come quelli classici di Conrad, la cui “Nota a Tifone” è citata non casualmente nel passaggio finale del libro).
“La chiave a stella” esce nel 1978 ed è il primo libro di Levi, che abbandona la memorialistica dello sterminio – per cui è celebre – per la narrativa come “attività creativa” (citato in “Ex chimico” di Levi, tra le “Assonanze” finali). “E’ un po’ la mia opera prima: quando ho scritto gli altri libri, avevo un’altra professione, facevo il chimico. Ma da un anno e mezzo scrivo soltanto. ‘La chiave a stella’ è il mio primo lavoro professionale …” (dalla N.d.R.). Il 1978 è anche una data “chiave” dal punto di vista storico, a ridosso del 1977, l’anno del movimento che per primo ha messo in discussione il lavoro. Levi ne era perfettamente consapevole: “So che il mio libro è destinato a provocare qualche polemica … al giorno d’oggi il rifiuto del lavoro è addirittura teorizzato da componenti giovanili, ma … esiste… una tendenza a sottovalutare la competenza professionale come valore positivo in sé” (dalla N.d.R.). In questo il contesto è molto diverso da quello della discussione su “letteratura e industria” di Volponi, Ottieri, Vittorini e Bianciardi, che riflette l’industrializzazione del boom economico degli anni Sessanta.
Le storie, che Levi racconta e fa raccontare in presa diretta al suo operaio, Faussone, sono una sorta di epopea del lavoro e della sua austera moralità (si veda la recensione di Staiano, in calce al volume). I due interlocutori si incontrano in Russia, dove Levi aveva effettivamente lavorato nell’edificazione dello stabilimento di produzione delle auto a Togliattigrad (1972-73), per il loro lavoro: Faussone perché deve montare uno dei suoi tralicci e Levi perché deve scoprire come mai la vernice prodotta dalla ditta per cui lavora non risponde alle caratteristiche per cui è venduta (cfr. i due capitoli: “Acciughe, I” e “Acciughe, II”).
Faussone è un ex operaio della Lancia, che poi ha scelto la “libertà” di lavorare fuori della fabbrica, facendo il montatore di strutture industriali in Africa, Alaska, India, Russia ecc., una storia che è una moderna Odissea. La sua arma è la “chiave a stella”, che dà il titolo al romanzo:”appesa alla vita, perché quella è per noi come la spada per i cavalieri di una volta”. Essa riflette l’orgoglio di un “sapere operaio”, di un mestiere, “fatto di malizie piccole e grosse, inventate da chissà quale Faussone nei tempi dei tempi, che a dirle tutte ci andrebbe un libro, è un libro che lo scriverà mai nessuno e in fondo è un peccato”. Il libro lo scrive Levi e lo anticipa dalla prima pagina: “Lei poi, se proprio lo vuol raccontare, ci lavora sopra , lo rettifica, lo smeriglia, toglie le bavature, gli dà un po’ di bombè e tira fuori una storia”. Levi riproduce il suo personaggio in presa diretta, usando deliberatamente un linguaggio “non letterario” pieno di termini tecnici, di piemontesismi e di costrutti dialettali, teso a fare i conti con la cultura della fabbrica, oggi perduta.
Faussone recupera anche una dimensione personale, l’eredità conflittuale del padre stagnino, che era ancora un artigiano (si veda il capitolo “Batter la lastra”). Sarebbe facile dire che questa è “un’aristocrazia operaia” super protetta e ben pagata rispetto ai lavori ripetitivi delle catene di montaggio ed anche di quelli alienati odierni al servizio delle macchine elettroniche. In realtà serve a recuperare la dimensione dell’homo faber, la cui mano cambia il mondo (si veda il capitolo “Le zie”, in cui entrano in gioco le mani di Faussone). Scrive Levi “l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra”.
Può sembrare eccessivo rispetto alla moltitudine di lavoratori alienati, ma Levi, che aveva conosciuto il lavoro schiavistico del lager nazista, sapeva bene di cosa parlava. Vi è comunque una dignità del lavoro ad ogni latitudine e in ogni situazione. Era la ragione per cui sulla base di quel “sapere operaio” e di quella “cultura della fabbrica” Marx poteva ipotizzare con forza che la classe operaia era in grado di dirigere il mondo e liberando se stessa poteva liberare l’intera umanità. La perdita di questa consapevolezza è una parte decisiva dell’attuale aumentata alienazione, dell’esilio esistenziale in cui vivono gli esseri umani del terzo millennio.