LUCIANO BIANCIARDI
“LA SOLITA ZUPPA E ALTRE STORIE”
BOMPIANI, MILANO, 1994, pp. 228
Si tratta di una raccolta postuma di racconti di Luciano Bianciardi, curata per Bompiani dalla figlia Luciana. Per quello che si può capire tra le righe della “Nota introduttiva” della curatrice, è una sorta di vendetta postuma contro gli editori, che in vita avevano rifiutato all’autore grossetano di pubblicare una sua raccolta con la scusa che “i racconti non vanno, non si vendono”, mentre gli facevano tradurre dall’inglese “due o tre raccolte”.
Si evince che è una vendetta “familiare” perché il seguito della citazione di Bianciardi è il motto della casa editrice della figlia, nel risvolto di copertina dei suoi libri si trova regolarmente (“La verità è che le case editrici sono piene di fannulloni frenetici…”).
La raccolta è costituita da tre parti: la prima contiene i racconti erotici (“raramente l’erotismo ha avuto così alta espressione letteraria” chiosa la curatrice), la seconda i temi cari a Bianciardi (la Maremma, gli amici, il servizio militare, il lavoro di traduttore), la terza è una sorta di appendice che contiene tre racconti inediti, tratti dal diario personale dell’autore, che scrisse dagli anni del liceo fino al 1946, all’epoca del ritorno dalla guerra. Come è stato scritto i primi tre racconti di argomento erotico (“I sessuofili”, “La solita zuppa” e “Il peripatetico”) meriterebbero di per sé la lettura.
Per me basterebbe “La solita zuppa”, che giustamente dà nome alla raccolta. Il racconto portò l’autore e il suo primo editore in tribunale per vilipendio della religione di stato e fu difeso da Umberto Eco. Il perno su cui ruota è un rovesciamento della realtà. Bianciardi racconta ancora una volta la Milano del boom economico, ma invece di affrontare come nel primo racconto la morale sessuofobica cattolica e piccolo-borghese, rovescia il tema. Non è il sesso ad essere tabù, ma l’alimentazione. Il sesso si pratica in tutte le salse come se si trattasse di normale cibo anche da asporto a domicilio come l’impagabile “minchia delle Madonie”, che la moglie consuma ordinandola per telefono al posto dello stanco coniuge protagonista del racconto, il quale a pranzo è stato in un ristorante “chiuso”, dove clandestinamente gli è stata servita “la fiorentina”. L’omonimia semantica non indica però una prostituta toscana, come l’ignaro lettore fino a quel punto si aspetta, ma la classica bistecca di carne chianina. I riti sono gli stessi solo che invece di sesso si parla di alimenti. Alla fine del racconto si rivela che il tabù alimentare nasce da un periodo cannibalico durante l’ultima glaciazione e l’ultima cena è interpretata come un “convegno omofobo”, ma nasconde un’ “orgia alimentare”. Questo costò a Bianciardi la denuncia penale. Dunque ancora una volta è una critica del consumismo capitalistico, che irrompe sulla scena di una società come quella italiana ancora dominata dalla morale della chiesa cattolica. Così l’Italietta di sempre assomma i vizi della vecchia società con quelli della nuova.
La critica irriverente dell'”Italia del Miracolo Economico” non è per niente bonaria a mio modesto avviso, come vorrebbe la curatrice, che poi si contraddice subito dopo quando scrive che la critica di Bianciardi è fatta con “parole taglienti”. Ella introduce il tema della “profezia” e dell’attualità dell’autore (si veda “Il gabellino” on line, la rivista della Fondazione Bianciardi di Grosseto): lo scrittore grossetano viene riscoperto oggi come colui che cinquant’anni fa aveva previsto gli esiti disastrosi della società appena fondata allora, i cui miti per gli “acchiappacitrulli” stanno cadendo come i ponti costruiti all’epoca.