GROSSETO – Questa domenica parliamo di un libro, che mi ha consigliato Emanuele Zinato, un amico che sta nella giuria dei letterati del Campiello. Sostiene che assomiglia ad un romanzo che sto scrivendo.
REMO RAPINO
“VITA. MORTE E MIRACOLI DI BONFIGLIO LIBORIO”
MINIMUM FAX, ROMA, 2019, pp. 265
Il romanzo ha vinto il Premio Campiello del 2020, in particolare è stato selezionato dalla giuria dei letterati, ed è entrato nella cinquina finale dello Strega, ma questo vorrebbe dire poco. Non tutti i libri che vincono premi anche prestigiosi sono significativi, lo stanno a testimoniare gli ultimi due vincitori dello Strega (Scurati, Veronesi), che sono stati stroncati qui e altrove. Questo romanzo merita di essere letto per la sua vena sperimentale: Rapino sta sulla linea degli innovatori della lingua, che procede da Dante ai giorni nostri e che trae alimento inesauribile nel volgare o se vogliamo nelle fonti dialettali, cioè da un punto di vista basso.
L’autore è abruzzese e la sua lingua sperimentale affonda le radici nelle sue origini. Non è proprio un esordiente, ha 69 anni, ma – come accade spesso – ha pubblicato le sue opere precedenti (alcuni romanzi e molte raccolte di versi) presso editori minori. Minimun Fax è una piccola casa editrice, che si sta facendo largo, grazie all’editor Fabio Stassi.
La voce narrante è Bonfiglio Liborio, figlio di padre ignoto (si sarebbe detto una volta), nato nel 1926, “anno che sulla terra entra in scena” (p. 5), e morto nel 2010, “anno che si prepara a entrare in scena la morte di…” (p. 248). Quindi è il romanzo di una vita che abbraccia tutto il Novecento e nella finzione è scritto su “un quaderno con le righe tutte dritte così non vado storto” (p. 15) nella cucina cadente della casa del paese d’origine, dove Liborio è costretto a tornare dopo una vita solitaria e travagliata, marcata dai “segni neri”, l’espressione più ricorrente nel romanzo (ho contate 37 ricorrenze). C’è una sola parola che ricorre maggiormente: “affanculo”, che segna l’indomabile resilienza del protagonista alle prove che gli assegna il suo destino. Questo è vissuto fatalmente come “già scritto, ma per imparare a leggere ci vuole tutta la vita e quando te lo sei imparato è troppo tardi e mica si può fare dietro fronte” (pp. 14-15).
Il padre abbandona la madre senza sposarla per andare a cercare fortuna alla “Merica”, lasciando nelle parole della madre l’unica traccia, che Liborio lascia scritta per la sua lapide tombale “aveva gli occhi uguali a quelli di suo padre” (p. 249). La sua nascita è il primo “segno nero”, anche il medico e la levatrice arrivano tardi. Rimane solo il nonno materno, Peppe, “socialista, però di Nenni”, muratore che muore cadendo da un’impalcatura.
Il resto della storia sembra la ricerca di un padre. Il primo sostituto, che Liborio incontra è il maestro elementare, Cianfarra Romeo, “un poco comunista” (p. 18), che ne asseconda l’inclinazione per la lettura e i numeri. Le condizioni di miseria interrompono gli studi alla fine delle elementari e siamo nel pieno del fascismo con i suoi riti, compresi i salti nel cerchio di fuoco che vengono ironizzati, il primo lavoro è a spaccarsi le mani e la schiena dal “ funaro”, Mastr’Antonio, che lo maltratta, ma lo paga regolarmente, da dove fugge per diventare apprendista barbiere nella bottega di Mastro Gerolamo. Qui Liborio fa la prima “cattiveria rivoltosa”, cacando sulla soglia del laboratorio delle funi.
Con Mastro Gerolamo si trovano mano nella mano “come padre e figlio” (p. 56) nelle terribili giornate dell’ottobre 1943 quando i tedeschi massacrano la popolazione civile e i giovani partigiani della Majella, che si oppongono. Anche questo non dura: “tanto il destino aveva già parlato e parlava pure quella macchia di sangue secco rimasta sulla pietra della piazza, che nè la neve né le bombe aveva cancellato” (p. 56).
Quando le cose cominciano a mettersi un po’ meglio e Liborio incontra Giordani Teresa, che aveva conosciuto nelle giornate dell’ottobre 1943, e riesce a darle un bacino, ma deve partire per il militare. Già Liborio (il cui nome è significativo) aveva già avuto le prime esperienze politiche e sindacali nel Fronte Popolare e nella sua sconfitta. Al ritorno dal militare trova Teresa sposata con lo “stoffaro” Maccarone, ricco e ciccione. La delusione lo spinge ad emigrare a Milano, dove lavora alcuni anni alla Borletti, a costruire le pedaliere di ghisa delle macchine da cucire. Sono gli anni del boom economico e Liborio fa due cose: diventa “fiommista”, come lascerà scritto di scrivere sulla sua tomba, per reagire ai rumori nella testa che in fabbrica lo facevano impazzire, ma dato che per il sindacato doveva aspettare per sconfiggere la “lienazione [che] dipendeva dall’ingiustizia del capitalismo selvaggio” (p. 93), decide di “andare seriamente a puttane, tutta una cosa scientifica” (p. 95). Finisce il boom e viene licenziato.
Dopo una serie di lotte perdenti, decide di andare a Bologna da un suo antico commilitone, che trova distrutto dalla sifilide. Qui prima si impiega alla Santa Rosa, dove fa la seconda “cattiveria rivoltosa”: mette la colla nella marmellata. Viene assunto dalla Ducati dove è coinvolto nel 1968 e conosce gli “stremisti, che ”erano teste calorose, ma non mollavano” (p. 117). La sua passione diventano “gli scioperi a gatto selvaggio” (p. 137), cioè il sabotaggio della produzione, insieme ad un gruppo di compagni “Boschetto, Lenino, Bacunino, Malatesta e Palmiro” (p.139). Liborio è sconvolto dall’incidente sul lavoro, che trincia il braccio di Boschetto e comincia a chiedere al caporeparto che fine fanno i trecento pezzi giornalieri che lui produce, “non sapevo a che serviva davvero il mio lavoro” (p. 143). È arrivato al nocciolo marxiano dell’ “(a)lienazione”. La domanda non ha risposta e in uno scatto di “cattiveria rivoltosa” massacra di botte il caporeparto.
Arrestato, è riconosciuto matto e ricoverato per cinque anni all’ospedale psichiatrico di Imola. Ci passerà nove anni, stringendo una rapporto con un nuovo padre, il dottor Mattolini Alvise, il quale riconosce che Liborio non è così matto come sembra. Insieme costruiscono un’esperienza di coltivazione dei campi intorno all’ospedale, in cui viene riconosciuta la capacità di Liborio e gli viene data “la mazzata finale, che era una sua [del dottore] grande gioia che io finalmente potevo uscire e tornarmene a casa”.Lui non vuole andare “perché non sapevo dove andare” (p. 177-178). Liborio si aspetta di essere riconosciuto per il suo impegno e che alla fine gli venga dato il camice bianco. Fa “un patto con tanto di stretta di mano come tra gli uomini liberi” (p. 179) di rimanere ancora un anno. Alla fine ottiene una pensioncina sociale e ritorna al paese, dove è più solo che al manicomio.
Nella vecchia casa cadente sperimenta una solitudine che lo gela progressivamente dentro e comincia a presentare i sintomi che non c’erano in manicomio, comincia a sentire le voci. Intorno a lui c’è l’emarginazione e il dileggio di chi si è fatto il nome di “cocciamatte” (p. 192). L’unica persona con cui ha uno scambio significativo è una vecchia ex-prostituta sorda, mentre la gente lo mette in guardia che potrebbe buscarsi una “malattia affettiva” (p. 218). Riescono a dialogare Liborio, che è diventato balbuziente perché non riesce più a coordinare i pensieri, e la vicina di casa sorda. Alla fine perde anche questa compagnia, ma trova la forza di partecipare alla manifestazione nazionale della FIOM, anche se gli organizzatori lo dimenticano a Roma, perché lui va a cercare i vecchi compagni della Ducati.
Vi è un’agnizione finale, che non rivelerò per non guastare la sorpresa del lettore, fondata sulla capacità compensatoria della follia.
Dunque la ricerca del padre ha fatto attraversare a Liborio tutte le vicende storiche del Novecento, ma l’originalità del romanzo sta nel punto di vista “dal basso”, che corrisponde alla scelta dialettale della lingua, rappresentata dalla capacità del protagonista di trovare un senso ad una vita segnata dalle batoste di un destino, che lascia “illividito pure il cuore” (p. 127). Come ha detto Rapino in un’intervista alla RAI la vita di Liborio, che per tanti versi è un buon figlio fin dal suo cognome, è il tentativo coraggioso di trovare un’accoglienza alla propria diversità. I romanzo fa emergere un rimosso sociale, che si ostina ad emarginare i diversi.