CASTIGLIONE DELLA PESCAIA – “Il mistero dell’acquaio intasato”. Mamma pronunciava questa frase quando voleva sminuire una notizia, quando voleva farci capire che non era niente di eccezionale oppure che era già al corrente di cosa era accaduto o di cosa sarebbe accaduto.
E disse proprio così quando, poco prima di Pasqua, arrivando a casa, tutto trafelato per la grande fatica fatta correndo, dissi “sono tutti a Riva del Sole con le svedesi, quelli più grandi, sono tutti lì”.
Si perché i ragazzi più grandi, appena arrivava la prima svedese, si precipitavano alla ricerca della preda da conquistare e la prima esibizione della conquista avveniva durante la processione del Gesù Morto, il venerdì Santo.
Dietro la grande croce, il catafalco, i fustigatori, le vergini, la Maria Maddalena, gli uomini incappucciati e gli altri partecipanti al rito, potevi incontrare, mano nella mano, i ragazzi con accanto le belle fanciulle bionde provenienti dal nord Europa.
Di quella cerimonia il mio ricordo è incentrato sul suono dei quegli strani strumenti di legno che venivano fatti roteare da uomini vestiti di nero e che con il loro rumore tetro unito alle litanie, creavano una sensazione di morte.
Il passaggio davanti alle macellerie, addobbate con manzi appesi al soffitto con catene e ornati con il verde dell’alloro dentro, e le vetrine illuminate e con la segatura sparsa sulle mattonelle per assorbirne il sangue scolato, contrastava con la mestizia del rito.
Le finestre delle case con appese le coperte e con i lumini accesi esaltavano invece il segno di devozione.
Ma dietro a questa contrizione pervadente la gioventù presente nel corteo ci riportava alla realtà del periodo adolescenziale di quei ragazzi che, mano nella mano, sognavano il futuro prossimo con quelle fanciulle di cui riuscivano a malapena a pronunciare il nome.
Quello che sarebbe accaduto tra loro dopo la fine della Processione era proprio il mistero dell’acquaio intasato… e dopo era Pasqua…
Era l’odore intenso della “campigliese” a ricordarci che di lì a poco avremmo festeggiato tutti insieme. Quello dei dolci pasquali era un rito! Tutti accomodati sul mobile di sala, quello “buono”, tutti in fila, perfetti, profumatissimi, invitanti.
Le peschine rosa di archemusse (alchermes) ricoperte di zucchero, il corollo, la torta pasqualina con l’uovo con il guscio in bella vista, la campigliese, coperti dalla tovaglia bianca che serviva a non far prendere luce e a conservane la fragranza ma sopratutto a toglierli alla vista di noi ragazzi che altrimenti li avremmo mangiati subito.
Quanti “viaggi” in sala, posto freschissimo dal momento che era un ambiente che non frequentavamo in quanto sempre chiuso, per controllare se qualcuno avesse dato il via “alle danze”, speranzosi di poter assaggiare qualcosa prima della scampanata di mezzanotte.
Si perché il via a quel trionfo della golosità lo davano le campane della Chiesa dopo che erano “state sciolte” durante la messa della notte. E quel din don risuonava nelle nostre orecchie come un invito a mangiare un pezzo di quel corollo che si scioglieva in bocca e che ci invitava a prenderne ancora un pezzetto prima di andare a dormire.
Poi la mattina, appena svegli, davanti ad una tazza di latte o di cioccolata calda, inzuppavamo le peschine, felici “come pasque”, ridendo e scherzando delle nostre facce sporche di zucchero e di cioccolato.
Era la Pasqua di quando le sedie erano tutte piene…
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