GROSSETO – «Da tempo non lo vedevo. Pensavo gli fosse successo qualcosa. Poi un giorno, mentre sfrecciavo sull’Aurelia con la mia utilitaria, nei pressi di Patanella, lo vidi fermo in una stradina parallela. Frenai, invertii la marcia e tornai indietro fino a raggiungere l’imbocco della stradina. “Giovanni” lo chiamai». Così, dopo tanti anni dalla sua morte, Carla Vannetti, una nostra lettrice, ricorda con affetto Giovanni, l’uomo che, per tanti anni, ha spinto un carretto su e giù per l’Aurelia un carretto che era tutta la sua casa. Per questo lo avevano soprannominato “l’uomo tartaruga”, perché viaggiava con la sua casa sempre con sé, come un guscio sicuro in cui rifugiarsi.
«Giovanni, un ometto non troppo alto, un pò rinsecchito, scuro in volto e pieno di rughe uscì fuori. Aveva due occhietti piccoli, come due fessure che spuntavano a tratti da sotto la larga visiera. Le mani scure. Indossava un paio di pantaloni e una maglia dal colore indefinito».
«Altri panni erano stesi sui cespugli intorno. Due paia di calze, un paio di calzoni, una maglia. Tutto aveva lo stesso colore indefinito dei panni che portava addosso. Così come il suo carrettino, che sembra il guscio di una tartaruga. Mi riconobbe. Dieci anni prima, un giorno, mi ero fermata per curiosità a parlare con quello strano individuo che vedevo ogni tanto sull’Aurelia intento a spingere il suo carretto. Avevo con me la macchina fotografica e gli feci un paio di foto. Era tranquillo. Rispondeva con gentilezza alle mie domande. Era nato a Verona, mi disse. Aveva lavorato per anni in Val d’Aosta. In società con i fratelli. Poi aveva lasciato tutto ed era venuto in Maremma»
«Chissà perché aveva deciso di stabilire la propria residenza nel tratto di Aurelia compresa tra Follonica e Pescia Romana. Lì ha vissuto, spingendo il suo carretto coperto di sacchi di naylon dipinti di nero, di verde, di marrone, secondo le stagioni. Uno specchietto retrovisore per avvertirlo dei pericoli che sopraggiungevano alle sue spalle» prosegue il ricordo.
«Viaggiava nelle ore di minor traffico. Poi si fermava nelle sue piazzole fisse. Accendeva il fuoco. Cuoceva la minestra in un tegame ricavato da un vecchio barattolo di pomodori. Stendeva per terra un giornale e mangiava. Coltivava il suo orticello lungo la strada. Qua una patata e una cipolla. Là un pomodoro e qualche aglietto. Quando ripassava raccattava i frutti. E raccoglieva anche quel che trovava lungo le soste e poteva tornargli utile, smontando e rimontando, tutto ben legato. Ogni cosa al suo posto».
«Quando passava per la Torba vendeva le ferraglie al rottamaio. I pochi soldi che ne aveva in cambio gli servivano per comprare le cose che non trovava per la strada: il pane la pasta il riso». Quando lo vidi stava tentando di costruirsi un cannocchiale. Aveva aperto lo sportellino del suo carretto. All’interno si intravedevano le sue cose. Un paio di forbici, delle lenti. Barattoli di tutte le misure. E poi tante taniche. Tutte verniciate di marrone. Tutte accatastate e legate tra di loro. Tutto l’abitacolo era pieno di taniche. La sera toglieva tutto e si rannicchia dentro per dormire. La mattina rimetteva tutto dentro e ripartiva».
Poi la lettrice torna a quell’ultimo incontro «Quando lo chiamai mi riconobbe. Dopo tanti anni ancora si ricordava di me e subito tirò fuori dal suo carretto un pacchetto legato con due elastici messi in croce. Lo aprì e mi mostrò soddisfatto la foto che gli regalai tanti anni fa. La teneva insieme a altre cinque o sei foto in bianco e nero. Forse la sua famiglia. “Come te la cavi ora che stanno facendo la nuova strada?” gli chiesi. “E’ pericoloso – rispose rassegnato -. Devo cercare altre strade”».
«Non pensò però di allontanarsi da quella zona che era ormai casa sua. “Sei soddisfatto della tua vita?” Gli chiesi prima di andarmene. “Certo, sono contento”. Non gli manca nulla. E rifiuta la mia offerta di cibo e di panni. Accetta solo una bottiglia di vino perché ancora non fa tanto caldo, dice, e può berne un goccino al giorno. Gli basterà per un mese».
«Lo salutai, dovevo andare o sarei arrivata tardi, avevo troppe cose da fare… e mentre correvo con la mia auto pensai a Giovanni, al suo carretto che sembrava una tartaruga e che invece era la sua casa. Alle poche cose che gli bastavano per vivere. Sarà pazzo? Eppure c’era tanta saggezza nel suo parlare pacato. Certo, era diverso. Ma oggi, a distanza di tanto tempo, penso, non avrà forse avuto ragione lui alla fine?».