IRENE NEMIROVSKY
“DAVID GOLDER”
ADELPHI EDIZIONI, MILANO, (1929) 2006, pp. 184
Il libro usci nel 1929, pochi mesi prima del Big Crash, il martedì nero di Wall Street, il 29 ottobre, che avviò la grande depressione, di cui infatti non parla, ma il contesto della storia è quello. Il personaggio eponimo, che dà il titolo del libro, è David Golder, un ebreo emigrato dall’Ucraina, povero, che ha fatto fortuna tra tanti rovesci e scalate finanziarie. Abbiamo visto come questo “tipo dell’ebreo arricchito”, come il Sig. Kampf de “Il ballo”, è una sorta di modello ricorrente nei romanzi della Némirovsky, per cui ella si è guadagnata l’accusa di antisemitismo dai suoi contemporanei. Questo non la salverà da Auschwitz. Ella stessa dichiarò: “Mi prende a volte una specie di vertigine, giacché mi pento di aver scritto quel libro. Mi chiedo se per condannare l’ambiente sociale da cui provenivo e che ho odiato così tanto, non abbia fornito ulteriori munizioni agli antisemiti. Temo di aver dato prova di leggerezza e di una volubilità suicida” (almeno così le fa dire la figlia durante l’occupazione nazista). Comunque ai suoi critici correligionari replicò con dura ironia: “Perché i francesi israeliti si vogliono riconoscere in David Golder?”, come a dire: se non fosse un personaggio aderente alla realtà, perché dovrebbero risentirsi? E’ un personaggio allegorico fin dal nome: “David” non può che essere ebraico e “Golder” è una sorta di rafforzativo di “gold”, l’oro. Infatti è il denaro il vero protagonista di questo romanzo, davvero potente nella sua rappresentazione materialista dell’ambiente sociale, di cui l’autrice aveva direttamente esperienza. Nella quarta di copertina, il patron di Adelphi, Pietro Citati, ha scritto:”è un libro che gronda odio, soprattutto verso il denaro … oggi non ci rendiamo conto di cosa sia stato il denaro del diciannovesimo secolo, nella prima parte del ventesimo: una fiamma ardentissima, una colata di sangue disseccata, sbarre d’oro sciolte e di nuovo pietrificate … come nella Comédi humaine”. La citazione di Balzac è pertinente, anche lì il denaro è il protagonista (ricordiamo “Eugenie Grandet”), ma c’è ancora qualche bagliore di umanità. Qui più nulla, in questo la definizione di Citati di “un libro durissimo e secchissimo” è azzeccata. Tutta la vicenda umana si riduce all’oro. Citati sbaglia nel declinare il tema solo nei due secoli alle nostre spalle, come se il ventunesimo secolo non fosse l’inveramento ancora più secco (se possibile) di questa verità fino a farne una mistica: il denaro è l’unica divinità rimasta.
Il libro inizia con la condanna a morte che David Golder commina al suo socio d’affari Marcus, che a seguito di un disastro speculativo si suiciderà in un bordello. David con una scarsa consapevolezza della sua responsabilità partecipa a malincuore al funerale e poi in preda ad un malessere fisico più che morale prende il treno per raggiungere la propria famiglia a Biarritz in Costa Azzurra, dove vivono la moglie, Gloria (altro nome significativo), una vecchia imbellettata come “un piatto dipinto” e coperta di diamanti, e la figlia Joyce, una ragazza di 18 anni viziata, che vive solo per il lusso e i soldi che lo procurano. Per loro Golder è solo una fonte di denaro, come lo è per il branco di parassiti che le circondano, a cominciare dal mantenuto amante della moglie, Hoynos, e del gigolò, principe spiantato, Alec, amante della figlia. Durante il viaggio Golder ha il primo attacco di angina pectoris, una sorta di condanna a morte protratta per l’assassinio di Marcus.
Gloria non gli rivela la natura mortale del male per evitare che lui smetta di lavorare e di procacciare denaro, l’unica cosa per cui serve. Durante un ultimo scontro Gloria gli rivela la natura della malattia e gli sbatte in faccia che la figlia non è sua, ma di Hoynos, cosa che David già sapeva in fondo. Si ritira nella casa di Parigi, smantellata per far fronte ai creditori. Qui lo raggiunge Joyce, che gli dice che sta per sposare per soldi un vecchio e ricco uomo d’affari come lui. Per riscattare la figlia Golder accetta un’ultima avventura finanziaria: contrattare con i funzionari sovietici la concessione di alcuni campi petroliferi in Ucraina. Riesce a ricostruire un patrimonio per la figlia. Con l’idea di verificare i campi ritorna alle sue origini in Ucraina, da cui era partito giovane e povero. Nel viaggio di ritorno in mare muore con l’ unico aiuto di un giovane ebreo, che come lui un tempo sta andando in Europa per cercare fortuna. Nell’ultima scena ha una visione panoramica della sua vita e sente per l’ultima volta una voce “esile” che lo chiama per nome. Forse la madre. L’unica traccia umana dell’intero romanzo, forse un’illusione.
In quest’ultima parte l’autrice dipinge i funzionari sovietici, che trascinano la trattativa per quattro mesi e mezzo, come gli altri, forse peggiori, servi del denaro e del potere. Solo un vecchio galeotto sembra distinguersi per un tratto più umano. E’ evidente che per la Némirovsky, transfuga dalla rivoluzione russa, i sovietici non sono diversi da tutti gli altri assetati di denaro. Quindi l’intero quadro è materialisticamente descritto: non ci sono alternative, nessuno si salva al dominio del capitale.