BEPPE FENOGLIO
“I VENTITRE GIORNI DELLA CITTA’ DI ALBA”
MONDADORI, MILANO, (1952) 1970 (2006), pp. 147
E’ il libro di esordio di Fenoglio. Si tratta di una raccolta di dodici racconti, di cui i primi sei riguardano l’esperienza della guerra partigiana dell’autore e gli ultimi sei il dopoguerra, il primo dei quali “Ettore va al lavoro” è il raccordo tra le due parti con la narrazione del difficile inserimento di un partigiano nel quotidiano dopo il rientro dalla montagna. La raccolta fu pubblicata da Vittorini ne “I gettoni” di Einaudi, editore che l’ha ripubblicata nel 2006. Presento qui l’edizione economica negli Oscar Mondadori del 1970, a cura di Maria Antonietta Grignani una storica collaboratrice della rivista “Allegoria, per uno studio materialistico della letteratura”. Alla fine dell’Oscar è pubblicato “La malora” (pp. 149-221), un romanzo breve che consegnò Fenoglio al successo.
Ho letto questi racconti la prima volta a vent’anni e alla seconda lettura mi rendo conto di come avevo letto superficialmente e di come essi si sovrapponessero nella mia percezione a “La ragazza di Bube” di Cassola, con il film che ne fu tratto, che per la mia generazione, quella che poi fece il ’68, ha rappresentato l’approccio alla memoria della Resistenza. E’ una sottovalutazione che va insieme a quella che avevo fatto della Resistenza in se stessa, che poi ho dovuto riscoprire e rivalutare (è stato un errore di gioventù: come molti ragazzi del ’68 pensavo che toccava alla nostra generazione aprire la strada della rivoluzione sociale e che i valori resistenziali erano stai traditi; nessuno ci aveva insegnato che essi erano consegnanti nella Costituzione repubblicana e con essi dovevamo fare i conti).
Questa prima prova di Fenoglio ha poco di epico come è stato detto dei romanzi successivi (un passaggio epico sta nel primo racconto, che da il titolo alla raccolta, dove si racconta della difesa estrema della città di Alba, prima conquistata dai partigiani in un’aspra battaglia e poi riconsegnata ai fascisti, che la assediavano con forze soverchianti). Non vi è neppure una concessione al neo-realismo come ha segnalato la Grignani nell’Introduzione. Piuttosto vi è un “grande realismo”, che convinse Vittorini alla pubblicazione. Contini a proposito del racconto sulla conquista e sulla caduta di Alba ha scritto nel 1968: “è una trascrizione prettamente esistenziale, non agiografica, di probità flaubertiana … tanto più meritoria per chi era stato fra gli attori dell’evento”. Come ho potuto constatare in molti racconti di partigiani nella scrittura di Fenoglio non vi è alcuna retorica, che invece abbondava in coloro che della Resistenza hanno fatto un mito, invece del tentativo della parte migliore dei cittadini italiani di raddrizzare le storture, che il nostro paese si portava dall’epoca della sua fondazione, egemonizzata dalla destra storica, moderata e poco democratica. La lingua invece è quella breve e secca degli americani che Fenoglio amava e traduceva: solo nella provincia italiana, era uno dei pochi a conoscere l’inglese come il nostro Bianciardi. Anzi secondo la Grignani l’inglese è la sua “lingua ideale” per quanto egli attingesse anche al tessuto del proprio dialetto e ai classici latini e greci. In questi racconti ho trovato qualcosa di noto, vi ho riconosciuto – soprattutto nei racconti del dopoguerra – l’aria rude, dimessa e per tanti versi eroica degli anni Cinquanta, di cui ho ancora ricordi infantili (quelle cucine, centro della casa, con l’ “angolo del gas”). I racconti di Fenoglio non hanno quella caratteristica tipica dei brevi, che finiscono con una trovata fulminante. In generale finiscono male con una morte (“L’odore della morte”), con una cesura o uno spegnimento drastico (“Pioggia e la sposa”). Sono chiuse analoghe a quella di “Una questione privata” o “Il partigiano Johnny”, a significare un destino umano senza riscatto, la cui dignità è solo nella scelta “giusta” (o nella scelta tout court), che ha segnato una vita, l’azione precedente. È il tema umile e dignitoso di tutte le scelte partigiane conseguenti. Va detto a scanso di ogni equivoco ideologico, non immediatamente politico, che Fenoglio fu partigiano “azzurro”, badogliano, di fede monarchica, a testimonianza di quanto fu vasto il fronte antifascista, che andava dalla destra liberale e monarchica, fedele allo statuto albertino, fino ai comunisti. Toccò a lui scrivere “il romanzo della Resistenza”, come Calvino definì il suo “Una questione privata”, di cui parleremo qui prossimamente.