PITIGLIANO – «Ci siamo salvati grazie all’aiuto dei contadini e delle loro famiglie». Elena Servi, rappresentante della comunità ebraica maremmana e presidente dell’associazione pitiglianese “La piccola Gerusalemme” ricordava così, in un’intervista che ci rilasciò nel 2017, i giorni terribili della persecuzione agli ebrei.
Elena Servi è da anni custode della memoria della comunità ebraica di Pitigliano, che nei secoli ha accolto gli ebrei in fuga dagli Stati vicini. A metà del ‘500, quando i Papi imposero a tutti gli ebrei di vivere nei ghetti di Roma e Ancona in molti decisero di lasciare lo Stato pontificio alla volta di Pitigliano che era dominata dagli Orsini, feudatari imperiali e quindi indipendenti rispetto al Papa.
La comunità, che fu un tempo fiorente, si spopolò nel secondo dopoguerra, ma resta una memoria fortissima, proprio grazie a Elena Servi, custode del museo, della Sinagoga e soprattutto del ricordo.
Elena Servi era una ragazzina quando furono emanate le leggi razziali. Quella esperienza, che ha modificato per sempre la sua vita, l’ha spesso portata nelle scuole, per raccontare, per ricordare, per mettere in guardia i ragazzi da quello che è stato e che purtroppo potrebbe ripetersi.
«Avevo 8 anni quando fui buttata fuori da scuola, come successe anche ad insegnanti e professionisti. Fu una cosa estremamente umiliante e amara per noi. Mio padre tornò a casa, era settembre o ottobre del 1938, avrei dovuto fare la terza elementare, e mi disse “quest’anno non andrai a scuola”. Non me ne capacitavo chiesi che cosa avessi fatto “io non ho fatto nulla, perché non posso andare”. così venni a contatto con le leggi razziali per la prima volta. Dovettero passare sette anni prima del mio rientro: in terza media».
Furono anni duri, «economicamente e moralmente. Eravamo cittadini italiani a tutti gli effetti, eravamo ben integrati: mio padre Livio (che aveva un negozio di stoffe) era un patriota, aveva combattuto per quattro anni durante la prima guerra mondiale, aveva ricevuto una croce al merito. Il fratello di mia madre era disperso in guerra. Mio padre dovette uscire dall’associazione combattenti, mia madre era la presidentessa delle famiglie dei combattenti e dovette rinunciare al proprio incarico».
«Dal 38 al 43 ci tolsero ogni diritto – ricorda Elena Servi – non eravamo più cittadini italiani. Ma rimanemmo nelle nostre case, e non fummo obbligati a indossare la stella gialla». Ma i piccoli gerarchi fascisti resero la vita molto dura agli ebrei. «Avevo un’amica molto cara, e suo padre fu chiamato perché le impedisse di giocare con me. Ma lui si rifiutò. Anzi, siccome gli ebrei non potevano più entrare nei locali quando la madre di un’altra amica usciva, andava al cinema al bar, mi portava con sé».
«Nel 43 (dopo l’armistizio) però la situazione precipitò. Arrivarono i nazisti e nel novembre (a ottobre c’era stata la deportazione del ghetto di Roma) fummo costretti a fuggire di casa. Ci aiutarono le famiglie di Pitigliano, i contadini. Proprio per non mettere troppo a rischio questa gente gli ultimi tre mesi li trascorremmo dentro una grotta io, mia madre, mio padre, le mie sorelle e nell’ultimo periodo anche il fidanzato di mia sorella, che era un partigiano di Firenze ma nel frattempo il suo gruppo si era sciolto».
La fuga, il nascondersi, andò avanti sino al giugno 44, quando arrivò la Liberazione: i Servi passavano da una casa all’altra, da una famiglia all’altra «Ci siamo salvati grazie all’aiuto di chi è stato coraggioso, e ha rischiato la propria vita» ricorda ancora. Pitigliano, Valentano, Farneta. La famiglia Servi si spostava, sempre protetta da amici e conoscenti (ma anche da persone che non conoscevano), così come altre famiglie ebree di Pitigliano. «Da gennaio ci aiutò il fattore della tenuta di Mezzano, Fortunato Sonno, che poi fu nominato “Giusto tra le nazioni” dallo Yad Vashem. Ci portava il cibo nella grotta in cui eravamo nascosti» gli ultimi tre mesi la famiglia Servi li trascorse infatti in una grotta.
La Shoah risparmiò, grazie alla solidarietà di molti, quasi tutti i pitiglianesi. Tranne la famiglia Cava. I Cava vivevano a Livorno, ma la moglie, Elda Moscati, era originaria di Pitigliano, e così erano sfollati lì. Sino a quando non giunse l’ordine, per tutti gli ebrei, di radunarsi nel campo di concentramento di Roccatederighi, nel comune di Roccastrada. Non avevano una rete, come era capitato alle altre famiglie, e ci andarono. Nella primavera del 44 iniziò la deportazione, prima degli ebrei stranieri e poi, in ordine alfabetico, di quelli italiani. Anche Aldo, Elda e i figli Franca e Enzo partirono per Auschwitz da dove non hanno fatto più ritorno. Una lapide nella sinagoga ricorda la loro morte.
Il ritorno a casa fu amaro, come ha raccontato più volte Elena Servi in altre interviste. La casa non c’era più, demolita dai tedeschi, e il padre non si riprese mai da quegli anni di paura e umiliazioni, tanto che morì pochi anni dopo. «Prosegui le scuole medie e poi andai a Firenze a finire il magistrale. Ho insegnato per tanti anni nella scuola pubblica, anche in quella stessa scuola elementare da cui fui buttata fuori da bambina». In molti, di coloro che vivevano a Pitigliano, però, non fecero più ritorno, le famiglie avevano trovato nuove case e la comunità negli anni è andata assottigliandosi. Ma il lavoro che continua a fare Elena Servi è quello di custodire e diffondere la memoria.
«La Giornata della Memoria non dovrebbe essere un giorno solo, e soprattutto non lo si dovrebbe celebrare perché ci obbliga la legge, magari sbuffando. Quando vado nelle scuole – racconta Elena Servi – cerco di far capire che le differente dovrebbero essere una ricchezza: di non guardare mai con odio chi è diverso da loro. Nei lager nazisti sono morte milioni di persone, non solo ebrei, ma tutti coloro che non corrispondevano all’obiettivo di creare una razza pura; i ragazzi dovrebbero capire che l’odio porta odio, e imparare la lezione. Anche se negli ultimi tempi mi sembra che questa lezione sia stata dimenticata e la storia si ripeta».