GROSSETO – Manco fossero una muta di cani di Pavlov. Appena arrivata la notizia dei potenziali siti individuati per lo stoccaggio delle scorie a bassa e media radioattività, hanno subito iniziato a sbavare e ad abbaiare indignazione e sconcerto. Una cacofonia d’aggettivi i più disparati, concordi però nel prendere le distanze da un atto atteso da cinque anni: la “carta nazionale delle aree più idonee” allo stoccaggio. In tutto 67 potenziali siti, classificati in base a criteri oggettivi e suddivisi in tre categorie: verde smeraldo (punteggio più alto), verde pisello (buono), celeste (isole) e giallo (zone possibili ma meno adeguate). Fra questi un’area nel comune di Campagnatico e una in Val d’Orcia. Entrambe in seconda fascia.
Indovina un po’? Nell’arco di un’ora un profluvio di comunicati all’insegna della più trasversale delle prese di posizione: siamo contrari, siamo sconcertati, inammissibile, perché non ci hanno consultato, noi siamo in Toscana! E via discorrendo. Destra, sinistra, centro, grillidi, pseudoambientalisti…. Uno spettacolo sinceramente raccapricciante.
Intanto di che si tratta? Banale: di rifiuti radioattivi a bassa attività, contenenti prevalentemente radionuclidi a breve vita, «caratterizzati cioè – spiega Il Sole 24 Ore – da un tempo di dimezzamento inferiore ai 30 anni e basse concentrazioni di radionuclidi a lunga vita». E di rifiuti a media attività, «che decadono al di sotto di determinati livelli di concentrazione nel rispetto di prefissati obiettivi di radioprotezione in un periodo di tempo dell’ordine di alcune centinaia di anni». Per stoccare i quali sono riconosciute idonee in ambito internazionale strutture di deposito di tipo superficiale.
Cioè a dire che non si tratta affatto (ma sarebbe lo stesso) di scorie di centrali nucleari, che in Italia non sono mai partite, ma per lo più di rifiuti ospedalieri. Ancora Il Sole 24 Ore: «reagenti farmaceutici, mezzi radiodiagnostici degli ospedali e terapie nucleari, radiografie industriali, guanti e le tute dei tecnici ospedalieri, controlli micrometrici di spessore delle laminazioni siderurgiche, il torio luminescente dei vecchi quadranti degli orologi. Perfino i parafulmini e i rilevatori di fumo che lampeggiano sul soffitto di cabine di nave e camere d’albergo contengono americio radioattivo». Peraltro, come al solito, ci si spaventa per quel che non merita, e non si presta attenzione ai pericoli veri. In Francia ci sono 32 centrali nucleari. Lione è a 800 km da Grosseto. Chernobyl a circa 2000.
Nessuna paura dunque. Come impongono buon senso, valutazioni scientifiche e normative internazionali, bisognerà realizzare un deposito unico nazionale per circa 31.000 metricubi di questi rifiuti a bassa e media attività radioattiva, oggi sparpagliati in una ventina di depositi in giro per l’Italia. Rifiuti che nei prossimi decenni arriveranno più o meno a 45.000 metricubi.
E qui, aldilà di moltissime altre considerazioni, entra in gioco il “riflesso di Pavlov” che obnubila le menti dei politici e la consapevolezza dell’opinione pubblica. Tutti ostaggio di una patetica, un po’ ridicola, e peraltro pericolosa, sindrome isterica.
Ivan Petrovič Pavlov (1849-1936) è stato un celebre fisiologo russo, studioso dell’apparato digerente, che nel 1904 ottenne il premio Nobel per aver dimostrato i meccanismi di funzionamento del cosiddetto «riflesso condizionato». Che scoprì grazie all’osservazione dei comportamenti di alcuni cani, e agli esperimenti che questi gli suggerirono.
Senza farla troppo lunga, Pavlov dimostrò che la salivazione psichica è il risultato di un apprendimento – coniò la locuzione «riflesso condizionale» per indicare il fenomeno – e che questa si differenzia dai riflessi comuni (non condizionali). Quelli cioè che si attivano naturalmente per reazione dell’organismo a fenomeni fisici o chimici; come la contrazione pupillare, la chiusura degli occhi, la salivazione scatenata dall’odore del cibo o dalla paura.
Pavlov, quindi, sviluppò le tecniche di condizionamento per dimostrare che i «riflessi condizionati» hanno una loro fisiologia, derivante da un processo di apprendimento mediato dal sistema nervoso superiore. Cioè un apprendimento psichico. E ci arrivò dando da mangiare al cane ogni volta che suonava un campanello. Dopo varie ripetizioni, lo stimolo del campanello si trasformava in stimolo condizionato capace di produrre da solo la risposta della salivazione. Questa volta condizionata.
Ecco. Decenni di bufale e allarmismi a-scientifici sulle scorie radioattive ottusamente amplificati dai media, hanno talmente inebetito il senso critico e la razionalità di politica e opinione pubblica, che oggi non è possibile nemmeno fare un discorso logico sullo stoccaggio in sicurezza di materiali radioattivi. Perché subito scatta il riflesso condizionato pavloviano. Con manifestazioni di grettezza istituzionale e irragionevolezza popolare, che lasciano a bocca aperta. Basta infatti pronunciare l’aggettivo radioattivo per scatenare argomentazioni farsesche. Tipo che la presenza di quattro ruderi a qualche chilometro da una possibile localizzazione del deposito, sarebbe causa ostativa alla sua realizzazione.
Eppure, ognuno di noi, se s’imbatte in un tumore, vuole a ogni costo le migliori cure (che rilasciano radiazioni). O pretende Tac, Risonanza magnetica, lastre e ogni altro tipo di esame diagnostico (che hanno componenti radioattive). O, ancora, utilizza manufatti per realizzare i quali i processi industriali e siderurgici sviluppano scorie radioattive……. Però No! Il deposito vicino casa No perdio! Meglio a casa di qualcun altro. Fedeli, sempre e comunque, alla sindrome di Nimby (not in my backyard): non nel mio cortile di casa.
Un po’ come con conformismo fariseo (ipocrita) si è fatto per il combustibile solido secondario (Css), prodotto dall’impianto delle Strillaie coi nostri rifiuti urbani. Che qui in provincia guai a bruciarlo – giammai! – ma che a spedirlo via nave all’inceneritore di Varna in Bulgaria va benone. Salvo poi fare i soloni moralisti, piangere e strepitare perché una cinquantina di ecoballe (di Css) sono cadute in mare nel golfo di Follonica, qualche anno fa.
Coi rifiuti come con le scorie radioattive. A dire il vero non è nemmeno sindrome di Nimby; troppo raffinata. È molto più prosaicamente, ed eticamente imbarazzante, «fare sesso col culo degli altri». Detto con laicità, senza il benché minimo intento sessita o omofobo.