FRANCESCO TARGHETTA
“LE VITE POTENZIALI”
MONDADORI, MILANO, 2018, pp. 245
E’ il romanzo di esordio di un autore relativamente giovane (Treviso, 1980), noto sin qui come poeta (“Fiaschi”, Excogita, l’editrice di L. Bianciardi, 2009) e in particolare per aver scritto un romanzo in versi (“Perciò veniamo bene nelle fotografie”, Isbn, 2012), che è stato un piccolo caso letterario. Il suo essere poeta ha condizionato – a mio parere – il giudizio di “lirismo” attribuito al romanzo (Oriana Mascali su il libraio.it). E’ noto che da Croce in poi la poesia non può che essere lirica, cosa che ha fottuto persino “La ginestra” di Leopardi. Non ci ho trovato grande lirismo, anzi molti tratti sono fin troppo prosaici. In questo c’è una somiglianza con il libro di Falco (“Ipotesi di una sconfitta”, Einaudi, 2017). Il romanzo è arrivato secondo al Campiello 2018.
Dal numero delle orecchie (cioè le pagine salienti) il libro mi è piaciuto, ma come nel caso di Falco mi rimane il dubbio che sia un interesse più sociologico che letterario. Sicuramente mi è piaciuto più questo perché c’è un elemento più emozionale, più patetico e meno cinico. Ciò è testimoniato da una presenza di personaggi femminili, presi di sbieco e di rimbalzo rispetto ai tre personaggi maschili, in particolare Matilde con la sua decisione di tenersi il bambino, che gli ha appiccicato il fidanzato per poi fuggire a gambe levate davanti alla sua gravidanza. C’è anche qualche elemento sentimentale, erotico e sessuale trasgressivo, che sfugge all’impiegatizio e sconfitto Falco. La storia è ambientata in uno squallido nord-est post industriale, dell’interland di Marghera, di cui l’autore, nato a Treviso, deve essere esperto.
E’ l’elemento realistico del romanzo, insieme a descrizioni un po’ turistiche di varie città europee in cui l’azione si svolge. La storia riguarda tre NERD trentenni e quindi le loro vite “potenziali”, che lavorano insieme in un’impresa di informatica che si occupa di e-commerce, l’Albecom, dal nome del proprietario, il precisissimo Alberto, il quale si scontra con il suo “tradimentoso” e carrierista “presales”, cioè il procacciatore di clienti dell’azienda, Giorgio De Lazzari, detto significativamente in sigla GDL. Sono due carrieristi, anche se con un profilo etico diverso. Alberto si rende conto di quanto il mondo reale, quello a cui “eravamo” abituati, sia remoto da quello virtuale di cui si occupa.
“Alberto viveva nell’uno, dove aveva una moglie, una casa, un lavoro e una macchina e cercava di governare l’altro dove immergeva ogni cosa in un’immateriale frenesia continuamente vorticata, ma senza troppi pericoli, almeno fintantoché fosse riuscito a tenere e integrare tutto assieme”. GDL è totalmente prono alle logiche di mercato globale. “Dopo aver scoperto quanta euforia desse l’abbondanza di opzioni del mondo multiforme, non aveva più saputo rinunciarvi” .
Vi è un che di tossicomanico, fortemente alcolico, nella sua vita: insegue consumisticamente i clienti e tutte le sottane che incontra nei suoi giri, anche se poi quando viene sgamato nei suoi raggiri trova rifugio nel fondo schiena della sua fidanzata, Veronica. I due trovano contrasto in un antico compagno di scuola di Alberto, Luciano, un programmatore di grande talento, che continua a trent’anni ad essere un adolescente imbranato, cosa che lo protegge dal carrierismo a cui sono subalterni gli altri due.
Si potrebbe pensare che il mondo virtuale descritto apra una prospettiva di tante vite potenzialmente disponibili come accenna la già citata Oriana Mascali. La mia opinione – soprattutto nel caso di Luciano, che vorrebbe dare una sponda alla gravidanza di Matilde, ma rimane al di qua di una prospettiva concreta – è che “le vite potenziali”, che danno il titolo al romanzo, sono quelle che avrebbero potuto essere e che non si realizzano mai. La condanna delle molte vite virtuali è che non se ne vive nemmeno una reale. E’ ovvio nell’esilio in cui siamo obbligati a vivere nel mondo elettronico globalizzato: non possiamo sfuggire, non ci sono alternative concrete, ma per rimanere al paragone con il dibattito degli anni 50 su “industria e letteratura” di Ottieri, Volponi, Vittorini e soprattutto Bianciardi a questo libro come a quello di Falco manca una presa di distanza critica almeno nella forma linguistica: non vi è traccia dell’uso corrosivo e negativo dell’ironia e del sarcasmo, in cui il nostro Bianciardi eccelleva. Sul versante linguistico abbonda l’uso dell’inglese, ma senza distanziamento o presa di giro. Ho trovato un solo neologismo a provare una residua capacità di innovare sperimentalmente la lingua: “cottonfioccare” (un termine del tutto sperso nel libro).