GROSSETO – Nella Repubblica fondata sulle sentenze dei tribunali amministrativi (mica sul lavoro), il radicalismo “ambientalista” minaccia di disintegrare quel che resta della gloriosa pineta leopoldina. Che sopravvive a stento lungo la fascia costiera della provincia di Grosseto. Da Follonica al Chiarone, passando per la pineta di Castiglione-Marina e della Feniglia.
Retroterra culturale di questa folle operazione è il convincimento, a-scientifico, che la pineta sia un bosco spontaneo e che bisogni lasciar fare il suo corso alla natura, ivi compresa la proliferazione del sottobosco, per ottenere la rigenerazione della malmessa fascia pinetata. Insomma, l’uomo deve starsene buono. Che la pineta ci pensa da sé.
Strumento prediletto per imporre questa visione, il sistematico ricorso a Tar e Consiglio di Stato, utilizzando cavilli giuridici di cui la nostra prodigiosa legislazione abbonda. Ultimo cascame di questa strategia il blocco del taglio di pini ormai compromessi da un punto di vista sanitario e arbusti nel tombolo di Marina di Grosseto e Castiglione della Pescaia, grazie all’accoglimento da parte del Consiglio di Stato del ricorso presentato contro le delibere di Giunta regionale relativa al “Piano specifico di prevenzione anti incendio boschivo per le pinete litoranee di Grosseto e Castiglione della Pescaia”. A seguire la sospensione del taglio dei boschi (attività selvicolturale) sull’Amiata, con l’ingresso a gamba tesa dell’alquanto creativa Soprintendenza di Siena, Grosseto e Arezzo, tutto da leggere: «non auspicabile che si voglia continuare nel governo (del bosco) a (taglio) ceduo». Secondo la Sovrintendenza, infatti, sarebbe più adeguato il ceduo composto, dal momento che «tale sistema selvicolturale meglio risponde ad esigenze estetiche, poiché attenua la discontinuità delle chiome, grazie al più elevato numero di matricine rilasciate e alle loro maggiori dimensioni, e si avvicina probabilmente di più al sistema selvicolturale storico di gran parte dei boschi della Toscana, prima della loro massiccia conversione a ceduo iniziata a partire dalle seconda metà del XIX Secolo”.
Mettendo da parte quel che accade sulla montagna – che mette in discussione i criteri di gestione di un bosco ben tenuto da 150 anni e certificato Pecf (Programme for endorsement of forest certification schemes) – merita tornare alle pinete. Senza impelagarsi nei criptici bizantinismi per iniziati delle sentenze, accessibili a pochissimi.
Il tema è invece tutto “politico”, per la rilevanza che il minacciato stravolgimento delle tecniche di manutenzione della pineta rischia di avere sulla nostra qualità della vita. Perché il valore estetico, di fruibilità e quello economico della fascia pinetata del Tombolo è incommensurabile. Anche tenuto conto del fatto che la nostra elevata reputazione di destinazione del turismo balneare, dipende proprio dalla floridezza (minacciata) di questi boschi di conifere (Pinus pinea e Pinus pinaster).
Come dice Roberto Costantini, ex ricercatore del Cnr, attuale coordinatore della sede di Grosseto del Lamma e membro dell’Accademia dei Georgofili con alle spalle, fra le altre, vent’anni di pubblicazioni sul rischio d’incendio boschivo: «la convinzione che la pineta sia un bosco naturale e che per la sua preservazione vada lasciato fare alla natura, è priva di fondamento scientifico. Boschi naturali, nel senso che si rigenerano e si mantengono senza intervento dell’uomo, ce ne sono pochi in Europa. Per trovarli bisogna andare lontano: ad esempio, le foreste equatoriali, o quelle del Canada, della Russia, o dei grandi parchi americani. Su estensioni enormi che possono corrispondere a Stati o Regioni, in cui la presenza umana è quasi trascurabile. No di certo sulle Alpi o sugli Appennini, ove l’uomo utilizza e preserva la risorsa ormai da secoli. Oltre che nella nostra fascia costiera. Le coltivazioni selvicolturali sono il frutto dell’evoluzione tecnologica e degli approcci estetici. La Toscana è uno degli esempi più noti al mondo di disegno e costruzione del paesaggio. Anche il vincolo paesaggistico che tutela la nostra pineta, risalente al 1958, non ha nulla a che vedere con la conservazione dura e pura. L’intero territorio dell’Isola d’Elba, così come e la stessa pineta da Principina a Mare a Castiglione della Pescaia è vincolata. Il che non ha impedito né che si costruisse secondo la programmazione dei piani regolatori, né che in passato si svolgessero regolarmente le manutenzioni con tutte le operazioni selvicolturali necessarie.
Inoltre, agevolare la fruizione della pineta da parte dei cittadini, con le necessarie operazioni di mantenimento dei sentieri e della viabilità interna, non solo incrementa la fruibilità del bene e quindi l’interesse a conservarlo, ma determina anche una “sorveglianza” spontanea dovuta alla frequentazione, mentre l’abbandono e la conseguente impenetrabilità ostacolano le azioni antincendio».
Insomma, come direbbero a Firenze, non bisogna «confondere il culo con le quarant’ore». Intanto, per quali motivi la pineta muore? Perché i “pinottolai” (raccoglitori di pinoli) hanno abbandonato la manutenzione del tombolo, dopo che un parassita che svuota i pinoli ha reso le piante di pino domestico infruttifere. Finché c’erano loro al pezzo, il sottobosco era pulito, la viabilità manutenuta, il secco rimosso e gli alberi potati. Finiti i pinoli, finita la manutenzione ordinaria (molto costosa). Poi perché i pini invecchiano e dopo un centinaio d’anni iniziano a deperire. Senza che nessuno li sostituisca, visto che non c’è convenienza economica e non avviene più la rigenerazione spontanea a causa della mancata produzione di pinoli. Ma anche perché da una trentina d’anni a questa parte si sono susseguite ondate di diversi parassiti, che hanno aggredito sia il pino domestico che quello selvatico. Portandoli al deperimento ed essiccandoli. In parallelo i pini, con radici superficiali che vanno sotto terra per soli 70-100 cm, hanno sofferto di mancanza d’acqua, soprattutto nei periodi caldi e siccitosi. Perché si è notevolmente abbassata la falda acquifera, con l’ingressione del cuneo salino, e perché la proliferazione arbustiva in conseguenza della mancata periodica pulitura del sottobosco ha sottratto acqua preziosa ai pini. Perdenti nella competizione con le piante della macchia mediterranea, che hanno radici più profonde. Le condizioni pietose della pineta sono oggi sotto gli occhi di tutti.
In questo contesto tragico, c’è chi pensa che lo spontaneismo della natura risolva tutto. E non trova di meglio che provare a bloccare, qualche volta riuscendoci, i piani antincendio e di manutenzione finanziati dalla Regione Toscana. Fra l’altro stoppando anche la pratica virtuosa dell’occupazione temporanea dei terreni dei privati che non intervengono per gestire la pineta, con l’intervento sostitutivo della Comunità montana. Cui sono stati delegate le operazioni e il coordinamento delle ditte che operano sul campo. Oltretutto in un contesto delicatissimo, con estensioni di pineta relativamente piccole in termini assoluti e soprattutto adiacenti a centri abitati e campeggi. Quindi facilmente aggredibili dalle fiamme.
A proposito di fuoco. Un’ultima chicca, utile per capire come con la pretesa di fare del bene, si finisca per fare danni. Gravi. La mancata manutenzione ordinaria – con ripulitura del sottobosco, diradamento e sostituzione dei pini, asportazione del secco – è un poderoso moltiplicatore dei rischi d’incendio. Gli esperti parlano di effetto hot-spot, per cui il calore della pineta incendiata si propaga fino a 200 metri dal focolaio, gassificando la resina dei pini (effetto aerosol) che funziona da ulteriore innesco anche a notevole distanza. Quindi ampliando gl’incendi. Poi ci sono i cosiddetti “gradienti verticali e orizzontali”. Ovverosia la giusta densità delle piante porta a una minore possibilità che le fiamme si propaghino. Più il sottobosco è pulito e accessibile, non desertificato, minore è la possibilità che le lingue di fuoco dai cespugli arrivino a incendiare le chiome dei pini. Che essendo contigue costituiscono un ulteriore fattore di propagazione degl’incendi.
Inoltre, una pineta con densità eccessiva accresce la competizione delle piante, in un ambiente già poco fertile e poco luminoso: molte si ammalano o deperiscono, aumenta quindi la quantità di materiale facilmente infiammabile
Insomma, non ci sarebbe da inventare niente. Tutto già ampiamente studiato e testato. Solo la creatività malsana di chi pensa di risolvere problemi concreti con calembour giuridico-amministrativi, può aggiungere danni alla beffa dell’avanzato deperimento della pineta.
Magari la politica reagisse in modo più energico, invece di starsene impaurita ad incassare. E soprattutto le persone comuni cercassero d’andare oltre gli stereotipi dell’estremismo ambientale (contiguo al “pensiero” antiscientifico no-vax et similia), forse vivremmo una stagione meno permeata da catastrofi, e catastrofismi. È legittimo sperare che avvenga?