Inizia oggi una nuova rubrica letteraria, che verrà curata dal grossetano Giuseppe Beppe Corlito. Pergamena il nome di questa rubrica parlerà di libri, letteratura e autori. Buona lettura.
ALBERTO PRUNETTI
“108 METRI. THE NEW WORKING CLASS HERO”
GIUSEPPE LATERZA EDITORE, BARI-ROMA, 2018, pp. 137
Le pagine della mia copia di questo agile romanzo autobiografico sulla condizione eroica della nuova classe operaia, prendendo a prestito la definizione da John Lennon, contiene un numero elevatissimo di “orecchie”. Sicuramente di tutti i romanzi, che ho letto sul tema “letteratura e lavoro”, è quello che mi è piaciuto di più per i contenuti, per la forma letteraria e per lo stile. Inoltre Prunetti non fa mistero della sua origine maremmana: è nato Piombino, l'”iron town” (p. 106) è la stazione di partenza e di arrivo del romanzo, ha vissuto a Follonica in una famiglia operaia, prima di emigrare in Inghilterra e lavorarvi come “cleaner”, “pizza chef” e “kitchen assistent”, come ci informa il risvolto di copertina del libro; più prosaicamente in lingua italiana: “pulitore di cessi”, “pizzarolo” e “addetto alla cucina”. E’ la storia dei lavori che ha cambiato nella sua migrazione in Inghilterra in una serie di impieghi precari nei “cessi di Bristol” e nelle “cucine” e nelle “mense scolastiche del Dorset”, che egli ringrazia per la “writing fellowship” nella nota finale (p. 137).
Aveva già pubblicato altri due libri sulla condizione operaia: “Potassa” (Stampa Alternativa, 2003) e “Amianto. Una storia operaia” (Alegre, 2012, 2014), che con “108 metri” costituiscono una trilogia, in cui come ha dichiarato in un’intervista ha individuato il personaggio del padre, un “carattere”, Renato, che non è soltanto il padre autobiografico, ma una sintesi di tutti i padri operai, che ha conosciuto. I rapporto con il padre, magistralmente individuato in termini materialistici, è una sorta di pretesto per mettere in scena la storia di una classe operaia ormai estinta, quella che custodiva un mestiere (in questo caso coloro che hanno forgiato nell’altiforno di Piombino i binari lunghi 108 metri, che sono “le migliori rotaie d’Europa”, pp. 121-122) e una legge morale universale che poteva cambiare il mondo (pp. 38-39). Nel rapporto padre-figlio si stabilisce un legame forte non solo dal punto di vista affettivo, ma anche storico con la “new working class”, che si sbatte in giro per il mondo in una serie di lavori precari, in cui si cerca di ricavare una dignità anche nel pulire i cessi (è la scena esilarante in cui all’io narrante viene insegnato lo “spillage” (p. 66), cioè l’arte sofisticata per quanto merdosa di disgorgare i cessi).
L’io autobiografico è il figlio di Renato, il padre operaio specializzato, che quando dopo la laurea decide di partire per Bristol in cerca di lavoro gli mette in valigia i ferri del mestiere, il pappagallo idraulico e la raspa da metallo, che appesantiscono inutilmente il suo borsone all’imbarco all’aeroporto di Pisa. Non gli possono servire più, ma egli ha potuto studiare e questo gli permetterà di dare un senso alle proprie esperienze e di trovare conferma che le regole morali del padre sono davvero universali e valgono anche in Inghilterra come il padre gli aveva insegnato in uno scontro-incontro memorabile, quando respinge, prendendolo brutalmente per il colletto, l’idea che per risparmiare sul costo degli studi il figlio vuole andare all’accademia militare di Livorno. Sono le regole della solidarietà di classe contro i “quadrinai”. La storia di questa peregrinazione lavorativa inglese è compresa tra questo insegnamento operaio e il ritorno a casa, dove alla stazione di Follonica il protagonista si trova a piangere con l’operaio amico del babbo, Quattr’etti, lo spegnimento dell’altoforno di Piombino come la morte di una persona cara (p. 118-124). La parabola narrativa si chiude su una certezza, che è una speranza: “quando mi troverò nel fango, triste come un altoforno spento, … saprò che mai camminerò da solo” (p.132).
La descrizione del formarsi di una nuova coscienza di classe e dell’esistenza di “un’Entità” pervasiva, che è un idolo persecutorio, è ricavata lungo stilemi classici, in cui il capitalismo si raffigura come un Moloch antropofago (ricordiamo Allen Ginsberg o Friz Lang) o come il mostro dalla testa di polipo del mito di Cthul dello scrittore dell’horror fantascientifico Lovecraft, specificamente citato, che dà il titolo ad uno dei capitoli (p. 81). Forse questa è la parte più debole del racconto. La parte più interessante è, invece, quella linguistica che gioca con il pastiche mistilingue soprattutto l’inglese, che forse appesantisce i primi capitoli. Qui c’è una marca linguistica, che rimanda a Bianciardi fin da subito, dove nell’esperienza di pizzarolo si citano “i sacchi di farina del Premiato Mulino Molinari Enrico” (p. 17), che era il modo in cui Bianciardi traduceva ironicamente Henry Miller. La riuscita migliore è, appunto, la lezione bianciardiana, che Prunetti ricava stabilendo costantemente una distanza ironica dalla materia trattata e che lo mette una spanna sopra tutti gli autori che scrivono del lavoro contemporaneo.
Nella drammaticità degli eventi si trova sempre il modo di farsi una risata a denti stretti. Bianciardiano è anche il genere letterario, che si presenta allegoricamente “ibrido”, come “La vita agra”: un romanzo autobiografico che è anche la satira durissima del mondo contemporaneo e della sua alienazione. In questo senso si può ascrivere Prunetti alla serie “anarchicheggiante degli ‘scrittori della costa’ tirrenica, fra la Lunigiana e il grossetano: da Roccatagliata Ceccardi, Pea, Viani a, appunto, Bianciardi” secondo l’indicazione di Romano Luperini su “Il Gabellino” (n. 15, 2015).