GROSSETO – Venerdì 21 ottobre 1960, nella caserma “Polonio” di Merano, vecchia sede del reggimento “Savoia Cavalleria” (3°), veniva a mancare alla vita Albino, conosciuto dal tutti come il “cavallo d’Italia”. Dopo 60 anni i cavalieri paracadutisti ricordano quello che per tutti loro è il simbolo del sacrificio, della fedeltà e di quel connubio intramontabile che da secoli sottolinea l’essenza di un’Arma: il binomio uomo-cavallo.
Nato nel 1932, nel territorio della maremma, Albino, arruolato nelle fila del Regio Esercito partecipò con “Savoia Cavalleria” alla campagna di Russia dove, nell’agosto del 1942, prese parte all’epica carica di Isbunschenskij. Rientrato in Italia con il reggimento ne seguì le vicende fino al termine del conflitto mondiale quando se ne persero le tracce. La vita di Albino era comunque segnata dal destino e, ritrovato da alcuni Ufficiali mentre svolgeva lavori di campagna presso un contadino, venne riportato nei ranghi del Reggimento dove visse fino alla sua morte e dove continua ad occupare, tutt’ora (imbalsamato), il posto d’onore nella sala museale.
La sua storia seppur romanzata ha avuto ampio risalto mediatico durante gli anni ’50, libri e riviste diffusi a livello nazionale, lo ritrassero quale protagonista. Il Corriere dei Piccoli gli dedicò alcune strisce di fumetti che catturarono l’immaginazione di tantissimi giovani italiani, affascinati dal coraggio e dalla fedeltà che, in semplici disegni colorati, emergevano in quell’incerto primo dopoguerra, ricco di sogni, speranza e di storie degli eroi in uniforme. Le numerose lettere di bambini che scrissero da tutta Italia in occasione della sua morte testimoniano quanto diffuso era il suo racconto e quanto toccanti le sue gesta.
Le cravatte rosse, ricordano oggi Albino, a 60 anni dalla scomparsa, con le “sue” parole, scolpite nella lapide apposta in quella scuderia che, nell’ultimo scorcio di vita, lo ha ospitato in compagnia del fidato amico Mariolino in quel di Merano: “Il mio occhio cieco conserva luminosa l’immagine del glorioso Stendardo, la mia gamba brucia per la ferita di guerra, orgoglio di combattente, le mie orecchie odono sempre la tromba del “caricat” ed il grido incitatore degli Squadroni al galoppo verso la morte, la gloria e la vittoria. La mia groppa porta ancora la sella affardellata ed in arcioni è sempre Fantini il sergente maggiore che colpito a morte tenne ancora la punta della sciabola verso il nemico in fuga, la mia memoria vive nel ricordo di tutti i Cavalieri che nella leggendaria carica scrissero col sangue l’ultima, la più bella, la più gloriosa pagina di storia delle cavallerie di tutto il mondo”.