GROSSETO – Segare il ramo dell’albero su cui sei seduto. L’albero è quello della Democrazia. Contenti voi, contenti tutti. Perché il popolo è sovrano, sempre. Anche quando fa una solenne cazzata. Come avere dato il là al taglio dei parlamentari in assenza di una riforma vera del funzionamento del Parlamento. Senza porsi il problema di cosa sia oggi la rappresentanza.
Ciò non toglie valga la pena andare controcorrente in questi tempi perigliosi, e scoprire magari domani di aver avuto ragione. Segnalando alcune schizofrenie che stanno alla base del voto referendario. Una per esempio: gli stessi che hanno votato furiosi per ridurre il numero dei rappresentanti della “casta”, hanno poi votato in massa alcuni fra i suoi rappresentanti più prominenti. Politici tout court di lunghissima militanza come Luca Zaia, Eugenio Giani, Vincenzo De Luca, Francesco Acquaroli, gente che in carriere decennali ha fatto il sindaco, l’assessore, il consigliere regionale o il parlamentare. Oppure come Giovanni Toti e Michele Emiliano, arrivati al professionismo politico “solo” da 15-20 anni. Nonostante gli elettori avessero lì a disposizione, sulla scheda, i campioni degli anti casta: i mitici M5S, che a queste elezioni regionali hanno perso dal 60 alll’85% dei voti ottenuti alle politiche nel 2018. Ossimori nelle urne.
Per non dire che il risultato pratico della vittoria del Sì al referendum è una “polizza assicurativa” sulla sopravvivenza del Governo, perché i residui epigoni della “casta” vorranno godere a ogni costo dell’ultimo privilegio disponibile: chiudere la legislatura e massimizzare i profitti che non avranno più.
Ma c’è dell’altro. Dopo l’altra immane cazzata dell’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, una buona parte del sostegno economico all’attività politica (che riguarda tutti, piaccia o meno) era garantita dai parlamentari. Il taglio secco di quasi 400 fra deputati e senatori ridurrà ulteriormente i finanziamenti trasparenti alla politica. Le segreterie di partito avranno un controllo ferreo degli eletti (tutti Ascari) e a candidarsi saranno solo gli abbienti o chi avrà un padrino finanziatore, causa esorbitanti costi elettorali. Ovverosia la quintessenza della casta, peraltro asservita alle lobby economiche. Un capolavoro che sotto il profilo psicologico rientra nella fattispecie dell’eterogenesi dei fini. Direbbe il Magnifico Lorenzo: «chi vuol esser lieto sia, del doman non v’è certezza».
La rivincita dei “Pidioti” è stata eclatante quanto inopinata. Zingaretti, gatta sorda del bestiario politico nazionale, ha fatto come Temistocle con Serse a Salamina, piazzando l’ennesima zampata vincente quando tutti lo davano per moribondo. Il Partito democratico fa cappotto un po’ ovunque, per merito dei suoi candidati, della navigazione accorta dello Zinga, del fatto che al governo ha ministri come Gualtieri, De Micheli, Amendola, Provenzano. Che l’elettorato percepisce come argine al caos.
Basterà? Manco pe’ ggnente. Il Partito democratico, a parte Leu di Pigi Bersani, è solo «come un cane in chiesa». Oltre al fatto che è il peggiore avversario di sé stesso. Talmente democratico da mettersi in discussione senza che nessuno glielo chieda. Peraltro, o il Governo scioglie velocemente alcuni nodi e porta a casa un po’ di ciccia, oppure l’ennesima apertura di credito che gli elettori gli hanno concesso si dissolverà come neve al sole. E non basterà più il deterrente che “di là”, sull’altro lato della barricata, c’è il vuoto pneumatico. Il nulla cosmico. Insomma cercare e trovare la quadra richiederà una giochessa circense, soprattutto tenendo conto dell’entropia che sgoverna l’M5S. Non soggetto politico nebulizzato allo stato gassoso. «À la recherche du temps perdu» direbbe Marcel Proust.
Nel centrosinistra è esplosa la bolla speculativa di Italia Viva, che gli elettori hanno relegato nell’irrilevanza politica. Dalla figura cacina rimediata in Puglia da Ivan Scalfarotto, i cui bellicosi propositi hanno mietuto un irrisorio 2%. Al flop toscano del 4,46%, a consuntivo di un tam tam mediatico che in Toscana millantava un fantasmagorico 10%. Con il povero Renzi impaniato in giustificazionismi raccapriccianti: «se Giani non avesse presentato la lista Orgoglio Toscana, avremmo preso l’8%». Che è un po’ come dire: «se la mi’ nonna aveva le rote, era un carretto». Non male per chi era nato con l’ambizione di prosciugare il Pd, vivendo la vita virtuale dei sondaggi.
A questo punto, per il bene di tutti, in primis dell’elettorato di Italia Viva, per il Matteo del populismo di centro sarebbe consono un pietoso «promoveatur ut amoveatur» (che si promuova per rimuoverlo), come soluzione finale che ci risparmi il sequel di una storia nata male. Tutti i salmi finiscono in gloria: «extra ecclesia nulla salus» (nessuna salvezza fuori dalla chiesa).
E che dire dei FiveStars? Alias l’ineffabile M5S? Infierire sarebbe inelegante. Solo qualche consiglio. Evitare come la peste le sedute psichiatriche di autocoscienza collettiva. È tutto molto semplice: se non hai niente in testa, prima o poi se ne accorgono. E sono cazzi. Però se hai avuto il culo esagerato di trovarti al governo, tuo malgrado, hai la possibilità di recuperare terreno. Basta fare cose di buon senso, tipo dare velocemente il via al Mes. Prima che diventi l’ennesima recriminazione dell’elettorato per un’occasione buttata al vento. Oppure non insistere con la follia di quota 100. Per dire.
Alessandro Di Battista e Barbara Lezzi sono parossistici kamikatze. Vito Crimi è borotalco. Luigi di Maio la sottomarca di un distillato di cinismo. Roberto Fico sembra Nonna Abelarda. Beppe Grillo un fungo allucinogeno e Davide Casaleggio un trafficante di big data. Le classi dirigenti non s’improvvisano. Vale per tutti. Frugando fra parlamentari, sottosegretari e ministri, nel buco nero dell’M5S c’è del buono. Basta venga allo scoperto. Ma i circa 300 parlamentari dovrebbero capire che buona parte della partita della sopravvivenza politica del movimento (partito), dipende dalla loro capacità di discernimento. Se lo esercitano meglio per tutti, sennò sarà «cupio dissolvi». Con esiti nefasti per il Paese. «Noi, i ragazzi dello Zoo di Berlino»
Matteo Salvini ha preso una fila di manate che deve ancora finire di contare. Poi si può anche sostenere che la forza di gravità non esiste. In Toscana, ad esempio, è riuscito a fare peggio che in Emilia Romagna, perché qui il diesel Eugenio Giani non ha potuto nemmeno contare sull’effetto Sardine che aveva soccorso Stefano Bonaccini. Susanna Ceccardi, «si parva licet», è stata anche meno efficace di Lucia Borgonzoni. Un meteorite che rischiava di distruggere bellezza e dignità della Toscana. Accuratamente schivato dai “maledetti toscani”, a partire da quelli di Cascina che la conoscono bene. Il machismo sessista di Salvini, peraltro, è inqualificabile: usa le donne come figurine, soprammobili della politica. E il bello è che loro si prestano. Comunque la Susy ha la polizza vita di Strasburgo, dov’è subito tornata con la coda tra le gambe. Ché in Toscana non poteva mica tediarsi a fare opposizione.
Il problema di Salvini è la mancanza d’autorevolezza, che simula puntando su atteggiamenti autoritari. Da Putin del varesotto. Bravo a cavalcare la paura e la rabbia, è una frana in economia. Ove inanella una serie di amenità epiche, come flat-tax o uscita dall’Euro. Oppure la sostituzione dei soldi del Mes (a costo zero) con Bot e Cct «solo per gl’Italiani». Odierna versione maccheronica della farsa dell’oro donato alla patria, inscenata dal poro duce. Peccato che alla sostanza, l’economia è quel che determina le scelte politiche. E la credibilità dell’homo oeconomicus Salvini è quella di un lemure.
Quindi un uomo politicamente finito? Non è detto. Finché gli regge la gratitudine dello zoccolo duro leghista per aver portato il partito dal 4 al 30%. Oggi è intorno al 25%, ma con Salvini rischia d’essere un partito nel freezer. Zaia non ha fretta, Giorgetti potrebbe tentare l’assalto al cielo. E sarebbe un bene per tutti. Nel frattempo le manovre per l’inversione ideologica a U sono già iniziate: la Lega uscirà dal gruppo sovranista del Parlamento europeo, con l’obiettivo di approdare al PPE di Angela Merkel. Quando si dice la Nemesi.
Giorgia Meloni «nafanta». Cresce ma al massimo sottrae voti alla Lega. Troppo schiacciata sul registro emotivo neofascista, rischia di finire come Marie Le Pen. Eterna promessa, perenne delusione. Ha preso le Marche, ma è rimasta la piccola fiammiferaia.
D’altra parte non ha il passo lungo della statista Merkel, per dire. Ma nemmeno quello della scozzese Nicholas Sturgeon. L’unico pregio politico che le va riconosciuto è la tenacia (da non sottovalutare) e la coerenza. Le sue fortune sono dovute infatti all’aver semplicemente detto No, a tutto: No al governo gialloverde, da cui è rimasta fuori. No al governissimo. No a trattative col governo. Ha aspettato paziente le cazzate ondivaghe di Salvini, e ne ha ereditato i transfughi. Accendendo la contesa fratricida coi fratelli-coltelli color verdastro. Grosseto docet (ad esempio).
A parte questo e il consueto repertorio su immigrati, sicurezza e italianità, nessuna idea folgorante. In economia rimasticature di un sovranismo immaginario e fuori dal tempo. «Sotto il vestito niente».
Forza Italia c’era, ma nessuno se n’è accorto. Povero Silvio, così impegnato ad avere «una tra le cariche virali più alte d’Italia», da tarpare le ali alle due brave ragazze emancipatesi dal ruolo imbarazzante che avevano nelle cene eleganti. Come nel «Il ritratto di Dorian Gray».
Come finirà questo ameno Paese è difficile dire. Potrebbe tracollare. Ma potrebbe trovare la propria exit strategy. Speriamo nella seconda. Perché il rischio, come dice un mio amico di Roccatederighi, è che questo avvenga «quando la mi’ fava mette l’unghia» (cioè mai). Che non è un modo elegante di rappresentare le cose, ma sicuramente icastico.