GROSSETO – La ministra dell’istruzione non è proprio il suo mestiere. Lucia Azzolina è inadeguata al ruolo, non c’è bisogno d’essere introdotti nel mondo della scuola per capirlo. E d’altra parte cosa vuoi aspettarti se il mantra di questi anni, è stato che l’esperienza politica era un grave fastidioso; un orpello inutile di fronte al sacro fuoco dell’entusiasmo creativo dei “nuovi”?
Ora, però, figurati, tutti a sparare sulla Croce rossa. Scoprendo che non si può passare dal meet-up sul web al ministero senza fare i danni d’una bomba d’acqua. Senza aver fatto il cursus honorum. Senza aver amministrato manco un condominio – mica un assessorato – d’altronde, come puoi dirigere uno dei ministeri più complessi e importanti di tutti?
Lucia Azzolina, però, prende colpe non sue. E lascia per strada qualche piccolo merito. I quarant’anni precedenti di abbandono della scuola pubblica non possono esserle attribuiti. Né il meccanismo folle di assegnazione delle cattedre o quello cervellotico dei mega concorsi che arrivano sempre troppo tardi. Tuttalpiù ha aggiunto confusione al caos, infliggendo ai precari che da anni tengono in vita la scuola una meritocrazia farlocca via concorsone. Per contro il suo ministero, e prima di lei quello Fioramonti, sono quelli che per la prima volta da anni hanno investito risorse cospicue (ma ancora insufficienti) per il rinnovo del corpo insegnante e del personale tecnico e ausiliario. Illusorio sperare Azzolina fosse in grado di prevenire gli effetti autunnali della pandemia, rinnovare la didattica e metter mano alle piattaforme di e-learning. Non era, né è, in grado di farlo. Comandare è un’arte, e oltre alla predisposizione alla leadership, servono prassi quotidiana ed esperienze di livello. Basta fare il confronto con la performance di Roberto Speranza, apparentemente incolore ministro della salute. Che ha saputo mettere a frutto la sua esperienza di “bieco” politico di professione.
Ad ogni modo, la Azzolina un moto di empatia lo suscita, eccome. Perché proprio non si merita la mozione di sfiducia tiratale addosso da Matteo Salvini, che nel primo governo Conte ha avuto l’ardire di designare a capo del Miur l’esimio professor Marco Bussetti. Il peggior ministro dell’istruzione di sempre. Vuoto pneumatico spinto e meteora, il cui lascito morale è un’indagine della Corte dei conti su 80 trasferte alquanto dispendiose.
Ministro a parte, l’impressione netta è che l’attuale dibattito pubblico sulla scuola sia ostaggio di due
retoriche contrapposte che si elidono a vicenda: quella degl’insegnanti vagabondi e privilegiati (leggére) e quella dei docenti eroi. La polemica seguita alla fake new sui docenti che avrebbero rifiutato di sottoporsi ai test per individuare il Covid-19, è stata senza dubbio emblematica.
Ma soprattutto questa contrapposizione artificiosa impedisce di cogliere lo stato vero di una delle più determinanti istituzioni del Paese. Che, a voler usare una metafora, somiglia in modo impressionante al mulo degli Alpini. Mezzo di spostamento per valichi e tratturi montani, tanto obsoleto quanto affidabile, efficiente ed efficace. In grado di sopportare il peso di un basto insopportabile a chiunque altro. Perché, tutto sommato, il mastodonte della scuola pubblica italiana continua a educare, produrre cultura, emancipare persone e promuovere integrazione per più di otto milioni di studenti. Indubbiamente merito della gran parte del corpo docente, e dell’apparato tecnico e amministrativo. Per quanto nella truppa non manchino plotoni di riformati e imboscati, com’è inevitabile che sia per ogni organizzazione complessa a scala nazionale.
Soprattutto, visto dall’esterno il pianeta scolastico italiano ha alcuni grossi deficit. A partire dalla cifra psichiatrica delle procedure di selezione del personale docente e di assegnazione delle cattedre – che proprio in questi giorni a Grosseto vede svolgersi il tradizionale “mercato del pesce” (cit.) per affidare le cattedre ai supplenti (precari). Ma anche la latitanza di una struttura ministeriale efficace, dedita alla trasmissione di buone prassi didattiche, approcci comunicativi e competenze digitali alla comunità educativa che costituisce il nocciolo duro dell’istituzione. Così come appare poco comprensibile non esista un criterio di valutazione della qualità dell’insegnamento, con una procedura d’intervento per correggere il tiro dove serva. Argomento rimosso e ostacolato in modo corporativo, agitando strumentalmente lo spettro della meritocrazia di stampo produttivo che indubbiamente nuocerebbe alla scuola. Oppure l’indegna gestione del sostegno agli studenti con bisogni speciali, disabili e non, con le cattedre dedicate che diventano il “refugium peccatorum” per chi non è riuscito ad accaparrarsene di natura più ambita.
Ecco. Su una scuola con questi problemi incancreniti, è piombata la iattura del Coronavirus. Che non poteva non acuire i problemi, com’era ovvio che fosse.
Tuttavia, nonostante tutto, come sorprendentemente è avvenuto in generale per il Paese nella gestione della pandemia, la scuola pubblica ha tenuto botta. Prima nella gestione del lockdown, auto-organizzando una risposta con la didattica online, per quanto improvvisata e insufficiente. Poi in vista della riapertura di lunedì 14 settembre, riuscendo bene o male a ovviare all’arretratezza storica della macchina ministeriale. E al caotico modo di relazionarsi con Comuni, Province e aziende pubbliche dei trasporti.
In provincia di Grosseto, ad esempio – al di là di singoli episodi e oltre le inutili polemichette politiche sulla paternità dei soldi del fondo nazionale per i trasporti – le cose non sono andate affatto male in vista del battesimo del fuoco del suono della prima campanella. Questo è dipeso in buona parte dalle competenze e capacità gestionali dell’attuale gruppo dei dirigenti scolastici degli Istituti comprensivi – come Machetti, Giovannini, Mugnai e Lamioni, solo per citarne alcuni – ma anche dal lavoro d’equipe del personale tecnico e amministrativo di scuole, Comuni, Province e aziende di trasporto, a partire da Tiemme. Dal ruolo svolto dal nuovo dirigente dell’Ufficio scolastico regionale, Mazzola, e in generale dagli insegnanti che poi scenderanno in trincea con l’avvio delle lezioni.
Un po’ troppo sopra le righe, il livello d’isteria collettiva registrato nelle settimane precedenti l’apertura. Soprattutto perché sembrava ignorare sia le condizioni generali della scuola italiana, sia l’eccezionalità della situazione in conseguenza della pandemia. Che, ad esempio, ha mandato in tilt tutti i sistemi scolastici europei. Con chiusure repentine di intere scuole seguite alle aperture dell’anno scolastico, com’è successo in Francia. Paese noto per l’ottima organizzazione dell’amministrazione pubblica.
Fra l’altro, paradossale che in un Paese permeato in profondità di anarchismo, individualismo, e ostracismo nei confronti dello Stato, tutti quanti, in ogni segmento sociale e professionale, abbiano preteso dai vari ministeri circolari e decreti che disciplinassero ogni possibile e immaginabile dettaglio. Rimuovendo l’ipotesi che ci si regolasse secondo logica e buon senso. Riflesso pavloviano di una mentalità allevata nel culto dello scaricabarile, che a ogni livello mortifica l’assunzione individuale di responsabilità.
Alla fine dei conti, però, una volta tanto e nonostante tutto, c’è di che essere moderatamente sodisfatti di come la scuola è arrivata all’avvio delle lezioni. Bisogna dirlo. Come bisogna dirsi che il “bello” deve ancora arrivare, e che dovremo convivere con gli stop and go. Come fossimo in una situazione “di guerra”.
La buona notizia è che, malgrado l’edificio della scuola pubblica sia malconcio, sono più le mura rimaste in piedi delle macerie. Quindi l’opera di ricostruzione ha buone probabilità di riuscire. Solo che la si voglia affrontare con serietà.