FOLLONICA – Chitarrista, compositore, polistrumentista, arrangiatore e docente di chitarra classica: Lapo Marliani, oltre che “follonichese doc”, è il fondatore e componente storico, assieme a Francesco Ceri e Mirko Rosi, del gruppo musicale “I matti delle giuncaie”.
Oggi, con grande disponibilità, mi concede, e lo ringrazio, un po’ del suo tempo per realizzare questa intervista .
“Un ragazzo sogna sempre di essere in un gruppo rock: tutto è più grande della realtà” ha detto Neil Young. Tu Lapo cosa sognavi da ragazzo?
Ho sempre avuto fin da piccolo la testa tra le nuvole, la mia amata maestra delle elementari me lo diceva sempre. Probabilmente una “chiórba” così poteva approdare solo ed esclusivamente nella musica, che ha la facoltà, appunto, di portarti lontano dalla realtà, ed è proprio così che è andata a finire.
Da ragazzo, o meglio da quando ho cominciato a fare musica intorno ai 17 anni, coronai il sogno della frase di Young e con alcuni amici fondammo una band. Non facevamo rock, o almeno non solo, il nostro era un crossover tra punk, ska, reggae e psichedelìa. Di lì a poco un altro sogno divenne quello di riuscire a vivere con la propria musica. In parte ci sono riuscito col tempo.
Come nasce l’idea de “I matti delle giuncaie”?
Direi quasi per caso: nel 2007 lavoravo nella riserva naturale della Diaccia Botrona, quindi in ambiente palustre, e nello stesso periodo stavo preparando uno spettacolo di teatro e musica con l’attore Gianluca Orlandini su alcune opere di Renato Fucini, tra cui il racconto “Il matto delle giuncaie”. Nel frattempo avevo alcuni brani scritti da me, molto sull’allegro, e ci sentivo un mandolino. Chiamai così Francesco Ceri e misi semplicemente il titolo del racconto di Fucini al plurale.
Oramai la racconto tutta brevemente: pochi mesi dopo si aggiunsero Andrea Gozzi, Mirko Rosi e l’attrice Candida Nieri, che ci lasciò nel 2010 per importanti impegni teatrali. Nel 2018 se ne è andato anche Andrea, sostituito da Simone Giusti al basso elettrico a 5 corde.
Quattro album all’attivo. C’è un filo che li lega?
In realtà sono tre album in studio ed un doppio cd live con il quale abbiamo festeggiato nel 2018 i primi dieci anni di attività. Sicuramente il filo rosso è il girovagare, il mescolarsi, il farsi contaminare. Crediamo molto in queste cose anche nella vita, siamo sì d’accordo sul mantenere le proprie identità di popoli diversi, ma con assoluta apertura mentale verso le culture altre poiché per noi le differenze sono ricchezza.
Credo che questo si rifletta anche nella nostra musica che va dal rock progressivo alla tarantella, dallo ska al funky, dal folk alla techno.
Proprio nell’ottica della contaminazione negli anni abbiamo collaborato con Eugenio Bennato, Enrico Greppi, Finaz, il dj Luca Guerrieri, Marco Calliari, Scaramouche, Zastava Orkestar, Quartiere Coffee ed abbiamo in cantiere nuove ed inedite collaborazioni.
E c’è un brano a cui ti senti particolarmente legato?
Be’ sicuramente “Fenice felice” perché rappresenta in toto i Matti della prima decade di attività, tanto è vero che in tutti questi anni abbiamo quasi sempre finito i concerti con questo brano cantandolo insieme al pubblico.
La musica dei Matti della seconda decade invece è ancora da scrivere ed abbiamo appena cominciato. Il nuovo Album è previsto per il 2021.
“Il rock non morirà mai. Non fino a quando il piede di un sognatore batterà a ritmo con il suo cuore”, sono parole di Massimo Gramellini.
Tu cosa ne pensi?
Penso che il rock non sia morto ma che come genere musicale abbia perso un po’ di smalto, soprattutto perché non ha più quella carica rivoluzionaria che aveva all’inizio, le nostre orecchie si sono abituate ed oramai è molto familiare ai più.
Ciò nonostante penso anche io che non morirà mai perché credo sia soprattutto un’attitudine che la frase di Gramellini dipinge molto bene ma solo in parte. Si può essere rock in molti modi, nella vita come nella musica, non esclusivamente usando una chitarra elettrica.