GROSSETO – Provate a farvi lavare, imboccare, a farvi girare nel letto, fare una puntura o somministrare una terapia da chi fino al giorno prima ha fatto la contadina, ha lavorato in fabbrica, come taxista, non ha mai lavorato o comunque non si è mai occupato di assistenza alla persona. Immaginate cosa possa significare anche farsi mettere un catetere, curare una piaga da decubito, portare in giro con la carrozzina, o spostare dalla carrozzina alla macchina, da parte di chi è costretto a impararlo sul campo, facendo pratica sul vostro corpo. Senza parlare spesso che qualche parola stentata d’Italiano. Immaginate di dover dipendere da chi ha comportamenti sociali, abitudini alimentari e standard d’igiene completamente diversi dai tuoi.
Non è fantascienza. Benvenuti nel realistico e crudo mondo della presa in carico delle persone non autosufficienti: anziani, persone con patologie croniche o progressive invalidanti, donne e uomini con le più disparate disabilità fisiche, psichiche e intellettive, o con patologie psichiatriche. Tutti gestiti quotidianamente da un esercito di badanti e colf stranieri, al 90% donne, spesso sprovviste di competenze specifiche.
Un mondo sommerso ma vasto. Fuori dai radar dell’informazione mainstream, salvo quando si arriva al fattaccio eclatante di cronaca. Il genitore che nei confronti di un figlio gravemente disabile compie il gesto estremo dell’omicidio-suicidio. Le storie boccaccesche del vecchino truffato dalla badante. O il datore di lavoro che ricatta la colf per motivi sessuali. La vecchietta abbandonata a sé stessa…tutte manifestazioni patologiche di una situazione diffusa di disagio che in estate si acuisce.
Nonostante le variazioni sul tema, il problema è sempre lo stesso. Quello della convivenza forzata tra due bisogni primari: da una parte la necessità di avere persone dedicate al faticoso e delicato lavoro di cura. Dall’altra il bisogno di lavorare per campare, rendendosi disponibili a svolgere mansioni per cui non si ha alcuna professionalità. Che diversamente dall’opinione diffusa, è tutt’altro che facile da acquisire. Un vero e proprio suk dell’assistenza alla persona, dove le logiche brutali del mercato finiscono per prevalere proprio là dove sarebbe importante fossero mitigate. Visto che stiamo parlando di qualità della vita di persone fragili e di ambienti di lavoro che coincidono con la vita domestica, familiare, delle persone. Con tutte le implicazioni che l’intimità porta con sé. Un campo di battaglia sul quale perdono tutti: assistiti, familiari e lavoratori.
Non solo. Al di là delle difficoltà di convivenza pratiche e culturali, il tema ha anche un risvolto economico. È del tutto evidente. Un contratto da «badante» per 54 ore settimanali, infatti, comporta l’esborso per la persona presa in carico di almeno 950 euro mensili, cui si aggiungono circa 400 euro di contributi trimestrali. Poi ci sono tredicesima, Tfr e ferie. Per le quali va trovata una sostituzione. Diciamo in un anno, facendo cifra tonda, bene che vada sono 16.000 euro. Dei quali nella dichiarazione dei redditi si possono dedurre appena 1.540 euro. Ma il bello è che può aggiungersi il contributo vitto e alloggio, almeno altri 160 euro/mese. Per non essere tranquilli comunque. Perché se servono la copertura notturna e l’assistenza h24 i costi diventano da alti che sono, del tutto insostenibili. Alle aziende si danno sgravi contributivi e incentivi all’occupazione. Alle famiglie e a chi lavora nel settore, una pacca sulla spalla. Più spesso un calcio nel culo.
In questa cornice depressiva, il grande assente – tanto per cambiare – è lo Stato. Che non essendo in grado di assicurare un’assistenza diffusa, preferisce far finta di nulla. Lasciando generalmente a sé stesse le famiglie, ognuna delle quali si arrangia come può. Pensioni d’invalidità, assegni d’accompagnamento e contributi di varia natura, infatti, sono significativi se considerati come massa monetaria aggregata, ma assolutamente insufficienti rispetto ai bisogni. Già a inizio anni 2000 una stima di massima del ministero della Salute, prevedeva un fabbisogno per l’assistenza alle persone a vario titolo non autosufficienti di 12-14 miliardi di euro. E le cose non potranno che peggiorare in uno dei paesi più vecchi del mondo. Con proiezioni demografiche da brivido.
D’altra parte il fenomeno non è una questione circoscritta. Nonostante l’effetto della crisi economica seguita alla pandemia del Covid-19, con molte badanti e colf licenziate o rientrate in patria – di questi giorni le notizie sui media della quarantena per chi rientra da Romania, Ucraina e Bulgaria – a fronte di 850.000 addetti all’assistenza regolarmente iscritti all’Inps, infatti, secondo il rapporto sul lavoro domestico elaborato da Osservatorio Domina, Fondazione Leone Moressa e Cgia di Mestre, ci sono almeno un milione e 187mila colf e badanti che lavorano in nero. Stima che trova conferma nell’andamento della sanatoria per l’emersione del lavoro irregolare domestico e agricolo che, al 30 giugno 2020, ha visto la presentazione di 80.330 domande, 61.500 delle quali (l’88%) per la regolarizzazione di lavoratori domestici. Peraltro, alla chiusura della sanatoria si stima che l’emersione riguarderà appena il 10% dei potenziali interessati. Anche la provincia di Grosseto sta in questo calderone. Già nel 2017 uno studio di Coeso-Sds, Simurg Ricerche, Uscita di sicurezza e Fondazione Il Sole, stimava in circa 20.000 (9.122 ufficiali e 11.000 in nero) badanti e colf presenti nella Toscana del sud (Grosseto-Siena-Arezzo). Più o meno 5.000 delle quali nella provincia di Grosseto. I posti letto disponibili in provincia all’interno di strutture residenziali protette, inoltre, oggi sono complessivamente appena 700. Numeri impietosi che letti per quello che sono, tra l’altro, danno il colpo di grazia all’illusione coltivata negli anni che l’assistenza fondata sullo spontaneismo potesse garantire una migliore qualità della vita a domicilio, rispetto al confinamento nelle grandi strutture residenziali come le Rsa.
Infine un altro dei problemi macroscopici riguarda il livello di competenze di chi nelle nostre case si occupa di assistenza: nel 90% dei casi donne, per l’80% straniere. Se i datori di lavoro sonno obbligati ad assumere minimo con la categoria “superior”, quasi sempre chi viene assunto non ha esperienza specifica né formazione alle spalle. Non è in grado di prenotare una visita al Cup o di seguire correttamente una terapia, ad esempio. Per cui spesso chi entra in una casa, specialmente gli uomini, non solo non è in grado di essere autonomo, ma ha bisogno di lunghi periodi di apprendistato. Né esistono albi professionali che certifichino un minimo di conoscenza della materia o dei doveri contrattuali. Con solo alcuni Comuni – quasi tutti nel centro nord, e specialmente in Emilia Romagna – che hanno istituito albi pubblici ad adesione volontaria cui rivolgersi per contattare persone con un minimo di esperienza. Peraltro quasi sempre autocertificata. Lo stesso “Pronto Badante” istituito dalla Regione Toscana per provare a fornire una sponda alle famiglie, è di fatto il classico pannicello caldo che lascia impregiudicato il grosso dei problemi. Non di rado, inoltre, chi lavora nell’assistenza chiede di essere retribuito in nero per riscuotere l’indennità di disoccupazione, e poi finisce per fare causa al proprio datore di lavoro. Oppure ci sono datori di lavoro che impongono il nero.
Questo coacervo di problemi sfocia inevitabilmente in tensioni sociali e in una microconflittualità diffusa, che spesso a sua volta genera contenziosi sulle retribuzioni. Coi sindacati che magari si trovano a difendere badanti e colf impiegati dai propri iscritti.
Insomma, la mancanza totale di qualunque meccanismo di regolazione, tutela e garanzia, prima o dopo causerà una sollevazione popolare. Secondo lo schema scontato della guerra fra poveri. Con i milioni di persone coinvolte, è pressoché inevitabile. Per questo bisognerebbe avere forza e lungimiranza di prevenire, invece di attendere gli eventi.