GROSSETO – A volte il conformismo risulta una buona pratica sociale. Come il conformismo di prendere parte al flash mob “black lives matter” (le vite dei neri contano) organizzato venerdì sera al parco di via Giotto a Grosseto da un gruppo variegato di associazioni civiche e religiose. Per testimoniare che non si può morire come George Floyd, col ginocchio di un poliziotto che ti preme sul collo per più di otto minuti, senza che qualcuno provi ad alzare un dito. In nessuna parte di mondo civilizzato che si dichiari una Democrazia, almeno.
Dico conformismo perché, in fondo, come molti altri, non avrei avuto bisogno di esserci per dimostrare da che pare stessi. Come la vedessi. E però esserci è stato determinante. Per far vedere agli scettici, agl’indifferenti, che in questa città ci sono ancora più di 200 persone che il venerdì sera sono disposte ad uscire di casa per schierarsi dalla parte dei diritti civili. Ma soprattutto per me stesso. Perché quegli otto minuti e mezzo di concentrazione scanditi dalla riproduzione del battito cardiaco convulso di Floyd, da un rumore di fondo molesto che esacerbava lo stato d’animo e da quello ossessivo della sirena della polizia, sono stati un’esperienza traumatica. Di quelle che traslano all’istante in sensazioni fisiche ciò che hai visto in televisione, e che per conformismo con le idee che professi hai stigmatizzato. Ma con approccio razionale. Distaccato.
Era importante esserci per provare un po’ di sano, realistico orrore per la violenza gratuita, esibita, normalizzata. Per ricordarsi di stare allerta. Per avere ancora ribrezzo della banalità del male. Che può colpire ognuno di noi in modo imprevisto e immotivato, a prescindere da ciò di cui ti sei o non ti sei reso colpevole. Come per Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, i manifestanti che stavano nell’ex caserma Diaz al G8 di Genova, Adama Traorè in una banlieu di Parigi, Giulio Regeni o George Zacki in Egitto. Colpiti alla cieca con violenza assassina in nome del monopolio statale dell’uso della forza per finalità superiori e opache.
E il ginocchio sul collo è la metafora perfetta della situazione in cui oggi il Paese si trova. E quindi anche la Maremma. Che in virtù della propria consolidata marginalità economica di ginocchia sul collo ne ha addirittura due. Ma che nonostante questo continua a sottovalutare i rischi che corre, in termini di qualità della vita. Di perdita di status economico e di benessere.
In questo momento tutti gli occhi sono puntati sul turismo. E qui da noi è comprensibile. Il quadro è più che fosco: è proprio tetro. Il Sole24Ore è stato chiaro. Lo scorso anno gli stranieri arrivati nel Belpaese per turismo hanno speso 44 miliardi di euro. Quest’anno i flussi in ingresso saranno ridotti in maniera traumatica, e ognuno riscoprirà il proprio Paese. Per l’Italia sarà un salasso. Sempre nel 2019 gli Italiani hanno speso 27 miliardi per viaggi all’estero. Quest’anno quasi tutti ci rinunceranno, e sarebbe già un successo convertire la metà di quella spesa in consumi turistici interni.
In Toscana finora sono già andati in fumo circa 3 miliardi di consumi turistici, e nei prossimi tre mesi ce ne giochiamo altri 5. Tenuto conto che circa il 70% delle strutture ricettive rimarranno chiuse fino a fine giugno, c’è di che disperarsi. Tanto che Federalberghi paventa la scomparsa del 20% delle strutture ricettive al 2021. Previsioni così fosche che è un po’ difficile prenderle sul serio fino in fondo.
E in Maremma’ Come andrà? Bho! A spanne male, ma meno peggio di quel che sembra. Almeno per chi fa impresa, perché di sicuro chi contava sul lavoro stagionale farà un bagno di sangue. Nel contesto della crisi, tuttavia, la provincia di Grosseto ha quattro assi da giocarsi: i grandi spazi, la raggiungibilità in tempi non tragici dalle tre aree metropolitane di Firenze, Livorno-Pisa e Roma, circa 30.000 seconde case (in questo caso un vantaggio) e il basso impatto sul territorio della pandemia.
Il valore aggiunto annuo prodotto in provincia è circa 4,5 miliardi di euro. Facendo una media degli studi sull’impatto del turismo sull’economia maremmana, è possibile quantificarlo nel 25% del totale: un miliardo 200mila euro circa. Nel caso il turismo quest’anno perdesse un terzo del fatturato, sarebbero più o meno 400 milioni di euro. Perdesse la metà, arriveremmo a 600 milioni. Naturalmente sono calcoli approssimati a spanne, ma non troppo lontani da quello che succederà a consuntivo. Chi vivrà vedrà.
Nel frattempo, considerata la gravità oggettiva della situazione bisognerebbe rimanere attaccati con le unghie e con i denti a ogni altra attività economica che sul territorio genera reddito e dà lavoro. Come ad esempio la Venator di Scarlino, che con 310 milioni di fatturato dà lavoro diretto a circa 300 persone, e più o meno ad altre 150 nell’’indotto.
L’impianto scarlinese della multinazionale inglese della chimica produce biossido di titanio (pigmento del bianco per vernici industriali) ed ha l’esigenza di smaltire diverse migliaia di tonnellate di “gessi rossi” di risulta del proprio ciclo produttivo. Come noto il sito di stoccaggio dell’ex cava di Montioni (a Follonica) è oramai in via di esaurimento e ne serve uno nuovo. Da anni si discute di utilizzare ex cave dove i gessi rossi (solfato di calcio) potrebbero essere utilizzati come materiale di ripristino ambientale.
Naturalmente – e ci mancherebbe altro – nessuno li vuole. Prima è stata bocciata la cava della Vallina (Gavorrano), poi quella della Bartolina (Roccastrada). Oggi si discute dell’ex cava di sabbie silicee di Pietratonda (Campagnatico) di proprietà della Accornero Srl, che ha l’obbligo di ripristino ambientale. A Roccastrada nella ex cava vorrebbero farci un bel lago, a Pietratonda di laghetti ce ne sono un paio, formatisi per riempimento delle cavità nel terreno. Il 22 giugno si terrà la conferenza dei servizi che potrebbe dare il via libera all’utilizzo dei terreni per stoccare i gessi rossi, ma già naturalmente si annuncia battaglia. Perché com’è ovvio il futuro economico della Maremma sta in laghi e laghetti. E non trovare un sito di stoccaggio ai residui del ciclo di lavorazione di un’azienda che dà lavoro buono a più di 400 persone, è considerata una cosa accettabile. Anzi commendevole.
Nel frattempo L’Ires (Istituto di ricerca economica e sociale della Cgil) ha appena pubblicato un outlook sull’impatto della pandemia di SarsCov2 in Toscana, prevedendo entro il 2020 una perdita di posti di lavoro che varierà da 70 a 100.000 unità. Su una forza lavoro regionale di poco superiore a un milione e mezzo di addetti.
Ecco, quando sarà il momento di recriminare rispetto a chi ha messo il ginocchio sul collo alla provincia di Grosseto, ricordiamoci di andare a cercare i “fautori dell’economia dei laghetti”.