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GROSSETO – Ma sì dai! Usciamo dall’euro, e torniamo alla lira. Anzi, meglio, emettiamo titoli di stato in “talleri” o “dobloni”. Come zio Paperone. E nei ruoli chiave dell’economia facciamo in modo di collocare gli economisti da Monòpoli della Lega: Borghi, Bagnai e Garavaglia, insieme agli indagati Siri e Rixi. Poco importa che sia un dream team che nel mondo finanziario ha la credibilità di un branchetto di Lemuri. Tuttalpiù di Dugonghi.
Picchia e mena siamo arrivati al classico redde rationem – catartica resa dei conti all’Ok Korral – sullo sbandamento economico prodotto dalla pandemia di Covid-19. L’Italia, infatti, finalmente deve fare i conti coi propri storici deficit nella gestione delle politiche di bilancio. E non ci prendiamo per i fondelli, con la propria immagine di paese inaffidabile nella sua proiezione internazionale.
Menomale, nonostante tutto, che questo grottesco paese – il cui tratto culturale più superficiale ma visibile al mondo è l’inattendibilità cialtronesca – è allo stesso tempo in grado d’esprimere personaggi del calibro di Sergio Mattarella, Roberto Gualtieri, Mario Draghi o Mario Monti, oltre a un gruppo vasto d’imprenditori di vaglia, la cui autorevolezza finora ci ha salvato le chiappe. Ultimo a conquistarsi un po’ di credibilità – chi c’avrebbe mai sperato? – va ammesso, anche Giuseppe Conte. Non per aver battuto i pugni sul tavolo di Bruxelles, come sostengono i celoduristi da teatro dei pupi. Né per la perspicacia negoziale: poco saggio impiccarsi al No ad ogni costo al Mes (meccanismo europeo di stabilità). Ma di sicuro per essersi assunto la responsabilità politica di aver costretto i partner europei a fare definitivamente i conti con l’equivoco di fondo che caratterizza le scelte di Bruxelles: battere la strada di un’Europa a due velocità, con l’Italia fra i paesi a scartamento ridotto, oppure quella della costruzione di un meccanismo vero di governo comune dell’economia e delle politiche fiscali. Che implica in primo luogo la cessione di sovranità da parte degli Stati nazionali, e quindi il conseguente impegno finanziario.
Stante la situazione drammatica, a ciascuno di noi cittadini comuni compete l’onere di essere razionali fino alla spietatezza. Perché nel momento in cui la minaccia incombente è quella del crollo repentino del mondo che fino ad oggi ci ha garantito a tutti libertà, benessere e sicurezza, sarebbe un po’ provinciale – a essere edulcorati – pensare di trovare la via d’uscita delegando tutto a un grande “risolutore”. Che ci tolga le castagne del fuoco.
Il mito fittizio dell’uomo forte al comando sarebbe solo l’ennesima fuga dalla realtà. Né Matteo Salvini, né Matteo Renzi, per intendersi. Due facce della stessa medaglia. Epigoni di uno stereotipo d’interpretazione della politica che proprio il Coronavirus, se non altro, ha finalmente messo all’angolo. Facendone emergere l’incompetenza, l’impreparazione sul piano culturale e finanche la pochezza umana. In altre prole la terrificante inadeguatezza rispetto alla montagna da scalare. Nel primo caso messa in evidenza dall’incapacità di variare sul trema rispetto al cliché dell’impresario della paura, ossessivamente coltivata per proporsi sul piano personale come soluzione. I famigerati pieni poteri. Nel secondo per manifesta sopravvalutazione dei propri modesti mezzi, rivelata dal patetico gioco al rialzo per conquistare riflettori puntati in tutt’altre direzioni. Insomma, per entrambi: “sotto il vestito niente”.
Attenzione, però, che anche l’infatuazione per Mario Draghi di una parte di pubblica opinione, e di una nutrita schiera di politici che così galleggerebbero senza colpo ferire, è il sintomo della stessa malattia cronica che affligge l’Italia da troppo tempo. Draghi, che ha un’autorevolezza e una competenza imparagonabili alla gran parte dei totani dell’acquario della politica italiana, non è il mago Zurlì né il mago di Oz. Ma rischierebbe di finire per essere il mago Otelma. In assenza della presa di coscienza collettiva delle responsabilità che abbiamo come Paese. Smettendola una volta per tutte di pensare di essere i più furbi d’Europa, ma anche i più maltrattati e quindi titolari di un non meglio precisato credito. Prendendo atto del fatto che è una nostra responsabilità l’insostenibilità del debito pubblico maturata prima col boom del deficit ai tempi di Craxi, poi con l’incapacità di cogliere i vantaggi dell’euro, cui è seguita la botta del 2008 e il tragico pressappochismo della coppia Berlusconi-Tremonti, che nel 2011 ci ha portato a un millimetro dal bordo del baratro. Decenni attraversati nell’immarcescibile certezza che evadere le tasse fosse un diritto acquisito per usucapione. Una virtù civica.
Oggi non ci sono alternative all’Europa, se non il diluvio. Lo ha detto con la consueta chiarezza il presidente Sergio Mattarella, che ha menato sacrosanti fendenti col classico guanto di velluto. Agli Stati d’Europa che devono capire come la mutua assistenza non è solo conseguenza dell’etica della solidarietà ma risponde a un preciso interesse comune. Per continuare a garantire pace e prosperità. Ma anche alla politica e al popolo italiano. Ai quali ha detto che è finito il tempo delle manfrine, e che è dovere di tutti compattarsi e sostenere lo sforzo del governo di fronte a una catastrofe che nessuno aveva previsto in queste proporzioni
Sul piano più strettamente economico, invece, la strada l’ha tracciata con lucidità Mario draghi, col suo articolo sul Financial Times. Serve un intervento diretto dello Stato per garantire subito liquidità alle imprese e alle persone, fino all’estrema conseguenza di una garanzia illimitata ai nuovi prestiti garantiti dagli istituti di credito – di fatto un commissariamento del sistema bancario – e dell’azzeramento di alcune categorie di debiti alle imprese.
Che questo si realizzi con un incremento del bilancio dell’Unione europea (cioè più soldi dai bilanci dei singoli Stati), con la sospensione del Patto di stabilità (rapporto deficit/Pil), l’acquisto illimitato di titoli di Stato e bond aziendali da parte della Bce, l’implementazione del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) con condizionalità attenuata, oppure con l’emissione dei Covid-Bond a 50/60 anni mutualizzando il debito a livello europeo con la garanzia degli acquisti da parte della Bce, si vedrà nei prossimi giorni. La cosa più probabile è che alla fine si ricorra a un mix di più misure.
Quel che bisognerebbe fosse chiaro a tutti, è che ciascuno di questi strumenti dipende comunque dalla capacità degli Stati d’indebitarsi, perché la narrazione che basti battere moneta e stampare banconote è una delle più clamorose fake news propagandate dai sovranisti. Il che significa che si tratterà di misure a tempo per salvaguardare persone e capacità produttive, in attesa di un ritorno alla normalità. Con oneri spalmati nel tempo. E che l’accettazione di venire incontro all’Italia – ma anche a Spagna e Francia – da parte di Paesi che oggi hanno il debito pubblico al di sotto del 60-70% del loro prodotto interno lordo (Pil), non dipenderà da un altruistico afflato all’insegna del “volemosi bene”. Ma dalla nostra capacità di dimostrarci affidabili onorando gl’impegni presi. Cosa che raramente abbiamo fatto agli occhi di quasi tutto il Nord Europa. E d’altra parte, ad essere intellettualmente onesti, bisognerebbe rispondere al quesito di cosa faremmo noi a parti invertite.
Stando così le cose. L’unico argomento oggettivo a nostro vantaggio è che i Paesi europei sono oramai talmente integrati fra loro sia nella catena della produzione di valore, che negli scambi commerciali (Germania e Francia sono i primi due destinatari dell’export italiano, prima di Usa e Cina), che è improbabilissimo che al decadimento dell’Italia possa corrispondere la salvezza del Nord Europa.
Non ci sono spazi per alcun sovranismo, quindi. E d’altra parte, bastasse stampare quattrini per risolvere i problemi verrebbero meno le basi del capitalismo moderno. Talleri e dobloni, pertanto, lasciamoli ai sovranisti per baloccarsi col Monòpoli. E concentriamoci sul mondo reale.