La vecchiaia è una fase della vita mitizzata. Spesso avvolta nella tenerezza che ispirano le persone nella parte conclusiva della loro esistenza. Alla fine del cammino, i vecchi ci appaiono fragili e indifesi. Portatori di una saggezza superiore, figlia dell’esperienza. E finiscono per mancarci prima ancora che manchino, in un sentimento filiale struggente e disperato.
Sono i vecchi, nel bene e nel male, fra i protagonisti assoluti di questa brutta quarantena. È la loro morte da Coronavirus che esorcizza la nostra paura della morte. Chi non si è sentito sollevato, under 65enne, quando soprattutto all’inizio di quest’incubo hanno tutti sottolineato che il virus colpiva fondamentalmente i vecchi? Con patologie concomitanti.
I vecchi ci mancano nella vita quotidiana, nel loro rapporto coi nipoti. Al pranzo della domenica, con la tribù riunita intorno al tavolo, per mangiare le cose buone della tradizione culinaria familiare.
Ma in questo tempo sospeso della quarantena, i vecchi hanno anche dato spesso prove d’egoismo estremo. Ostinatamente attaccati alle proprie abitudini, sono stati fra i più recidivi a non rispettare le ordinanze su isolamento e distanziamento sociale. Sottovalutando con leggerezza il loro ruolo di untori del Covid-19. Continuando ad andare a giocare a carte, ritrovandosi in crocchi per strada, andando in giro o a fare la spesa senza alcuna precauzione. Sempre dicendo la stessa frase: «a più di ottant’anni che vuoi che mi faccia il Coronavirus. Poi se muoio pazienza, la mia vita l’ho vissuta». Appunto: la tua. Non quella di chi potresti infettare e mettere a rischio.
È una delle facce del cerchiobottismo culturale che contamina da sempre la nostra cultura nazionale. L’egoismo individuale che tracima in egoismo sociale. D’altra parte, alla fine, tirando le somme, per essere bravi vecchi, bisogna essere stati prima brave persone. Sin da giovani. Perché, salvo eccezioni, la vecchiaia acuisce le caratteristiche originarie.