FOLLONICA – Non potrò mai dimenticare la sua magistrale interpretazione di “Novecento” scritto da Alessandro Baricco nel 1994 e portato in scena a Follonica nel 2011. Era estate, e Eugenio Allegri collezionò un altro grande successo. E a distanza di tutti questi anni non avrei mai pensato che mi potesse capitare l’occasione di intervistarlo. Ed invece eccomi qui, “carta penna e calamaio” dice un vecchio adagio popolare, a cui si aggiunge la presenza e la squisita disponibilità di Eugenio che ringrazio di cuore.
Eugenio, lei è nato a Collegno, località prossima a Torino, splendida città industriale e di cultura, nonché già capitale d’Italia. Quali sono le tre cose che apprezza di più della sua città e del Piemonte in generale? E quali altre tre cose cambierebbe?
Innanzitutto, un sincero grazie per le belle parole spese a proposito di “Novecento”, e grazie per aver voluto questa intervista. Quella prima volta a Follonica me la ricorderò anch’io, sicuramente per molto tempo. Alla fine di quella replica venni informato che dal giorno dopo la Fonderia 2 della Leopolda avrebbe chiuso i battenti per essere ristrutturata e diventare un vero e proprio teatro da lì a tre anni grazie a finanziamenti europei e all’impegno del Comune. Registrai la cosa e tra me e me, francamente, sorrisi stupito, sapendo come vanno queste cose in Italia. Lo stupore più grosso fu poi scoprire che dopo tre anni era pronto il Teatro Fonderia Leopolda. La promessa era stata mantenuta.
Parlando di Torino, e dovendo dire tre cose che apprezzo, potrei dire: sul piano del carattere, il tratto congiunto di operosità e riservatezza; vi è poi un lato pittorico ed è la visione dei colori autunnali lungo le rive del Po in pieno centro città. Lungo quelle sponde è nata mia moglie Susanna che poi mi ha fatto scoprire la Maremma; infine, non posso dimenticare che Torino e la sua prima cintura, dove sono nato e cresciuto, caratterizzata da una forte presenza della classe operaia e della cultura antifascista, ha rappresentato il luogo della mia formazione culturale e politica che ha creato le basi per un percorso artistico sempre ancorato alla realtà.
Nel 1980 interpreta “ Gli Uccelli” Di Arstofane. Nel 2020 considera ancora attuale quella commedia?
L’ho interpretata due volte: la prima, appunto, nel 1980, con la regia di Memé Perlini, in scena i mitici musicisti degli Area, e il tutto aveva una forte valenza di ribellione politica se non addirittura ideologica; la seconda, nel 1997, con la regia di Gabriele Vacis, e questa volta con la Banda Osiris, e lì prevaleva l’irriverenza sociale e lo scherzo clownesco più anarchico. Spettacoli che andarono in tournée in tutta Italia con centinaia di repliche.
Qualche anno fa, le assicuro con molta modestia e tanto rispetto per Aristofane, ho “riscritto” e messo in scena per un gruppo teatrale pordenonese una versione femminile de “Gli Uccelli” che manteneva comunque al centro il tema della “corruzione”. Ho pensato e continuo a pensare che a questo punto non possano essere che le donne a voler andarsene dalla Città dove vengono offese, umiliate, defraudate delle loro speranze e del loro diritto a vivere una vita normale fatta di bisogni e desideri esaudibili, e a voler fondare una nuova “polis” da cercarsi in un altrove che forse piacerebbe a Italo Calvino; un luogo dove la vita degli esseri umani torni ad essere veramente tale. Guarda caso, oggi, una “piccola” donna che viene dal nord, di nome Greta, sta indicando a tutti noi, uomini e donne, come immaginare e rifondare le città dove potremo re-imparare a vivere. La struttura dell’opera di Aristofane, vecchia di duemilacinquecento anni, anche se riadattata, può risultare di una modernità stupefacente al cospetto dell’urgenza quotidiana. La rifarei ad ogni stagione teatrale se potessi.
Nel 1981 è al teatro stabile di Torino con “L’opera dello sghignazzo” scritta e diretta da Dario Fo. Cosa ricorda di quell’esperienza e qual è il ricordo che ha di lui?
Quello spettacolo fu un vero e proprio insuccesso e viene poco ricordato negli annali teatrali sebbene fosse, o forse proprio perché era, una mastodontica, costosissima e purtroppo assai confusa versione de “L’opera da tre soldi” di Bertold Brecht, che gli eredi non ritennero legittima contribuendo così ad annichilirla in una sola stagione e solo italiana, mentre l’ambizione dichiarata era quella di portarla per più tempo in giro per l’Europa. Per me, comunque, fu l’occasione per scoprire la grandezza di Dario Fo, e quell’opportunità capitatami a poco più di vent’anni ha segnato la mia vita.
In realtà ero andato a cercarmela, l’occasione, inseguendo Dario Fo un po’ ovunque in quell’estate del 1981, per approdare poi sulla spiaggia di Cesenatico, in un agosto rovente, buscarmi un’insolazione in attesa che arrivasse al suo ombrellone, al “Bagno Maria”, e infine riuscire a presentarmi, parlargli e convincerlo a farmi fare un provino per quello spettacolo. Il provino lo feci, e andò bene per fortuna. Le prove iniziate ad ottobre al Fabbricone di Prato durarono due mesi, e la tournée italiana altri sei.
I ricordi e gli aneddoti sono tantissimi, non potrei riportarli qui e ora. Posso dire però che in quei mesi ho scoperto più volte la forza dell’artista Fo e, qualche volta, la debolezza nonché tenerezza dell’uomo Dario: una lezione gigantesca di vita del teatro e del mondo degli attori, e forse lì ho definitivamente deciso che quello doveva essere il mio mondo. Resta da dire che il primo giorno di prove, quando Fo lesse a tutta la compagnia il copione dello spettacolo, alla fine mi ritrovai totalmente ammutolito, stordito e rapito dalla bellezza e dal genio dell’autore.
La sua grande ammirazione per Fo, Premio Nobel alla letteratura del 1997, si evince anche dall’aver riproposto nel 2018 “Mistero buffo”. Che cosa ha di magico?
Innanzitutto il linguaggio, il cosiddetto “Gramlot”, che possiede e mantiene inalterata nel tempo la forza rivoluzionaria sul piano espressivo grazie all’identificazione netta e precisa dei contenuti e alla invenzione della forma più adeguata per trasmetterli. L’idea e la struttura drammaturgica del testo sono tracce indelebili per il lavoro dell’attore e per la comunicazione poetica e politica che ne può scaturire. Non a caso arriverà il Nobel per la letteratura del 1997.
Vidi Dario Fo in scena per la mia prima volta, nel 1974, proprio nel “Mistero buffo”, nell’aula magna di Palazzo Nuovo, sede delle facoltà umanistiche dell’università di Torino: rimasi folgorato. Erano gli anni in cui, grazie a un professore di Lettere delle superiori, Antonio Di Molfetta, che dolorosamente due mesi fa è mancato, avevo cominciato a “fare teatro”, a scuola, ma in orario non scolastico. Ebbene quell’impulso etico e pedagogico fece sì che il giorno dopo aver visto “Mistero buffo” io andassi ad acquistare, per prima cosa, il libro dello spettacolo, e poco per volta, nei mesi successivi, uno dopo l’altro, con le misurate economie di volta in volta disponibili nelle mie tasche di ragazzo, i vari dischi in vinile con le registrazioni delle interpretazioni di Dario Fo in diversi teatri italiani. Conservo quei vinili da più di quarant’anni e con quell’ascolto ripetuto nel tempo ho imparato a memoria ogni “giullarata”. Quando ho cominciato le prove con Matthias Martelli per il nostro “Mistero buffo” sapevo esattamente dove bisognasse arrivare per restituire la magia di quell’opera. Per fortuna, oltreché per impegno, è andata così.
E passiamo al cinema, una per tutte la sua partecipazione nel 2013 al film “ Il giovane favoloso” per la regia di Mario Martone. Vuole raccontarci brevemente questa esperienza?
Premesso che amo molto il cinema e che mi sarebbe piaciuto farne molto di più di quanto fatto finora, posso dire che “Il giovane favoloso” ha rappresentato qualcosa di diverso nella mia esperienza di attore. Durante la mia settimana di riprese di giorno a Napoli, contemporaneamente ero in scena la sera a Roma, al Teatro Vittoria, con lo spettacolo “Berlinguer. I pensieri lunghi”. Ogni sera dopo lo spettacolo partivo per Napoli arrivandovi nel pieno della notte e la mattina presto (una mattina ricordo che la sveglia fu alle cinque per andare al trucco e ai costumi) ero pronto sul set. Dopo sette/otto ore di lavoro, bellissime ma molto impegnative, alè: si ripartiva per Roma e si andava in scena in teatro.
E’ stata una vera e propria impresa, ma confesso di non ricordare tanto la fatica quanto la bellezza rigeneratrice data dall’incontrare sul set colleghi straordinari, quasi tutti provenienti dal mondo del teatro. Ricordo un Mario Martone preparatissimo, sereno ma implacabile nel gestire ogni dettaglio del film, e ricordo un Elio Germano bravissimo: girai con lui due scene, e la sua apparizione sul set nei panni di Leopardi era davvero emozionante. Capivo di stare dentro a un qualcosa di “favoloso”, ma quando vidi il film in sala le sensazioni interiori furono superate abbondantemente dal risultato finale. Ringrazierò sempre Martone per avermi voluto nel film che tutti considerano il suo capolavoro.
Dal 2015 è direttore artistico del Teatro Fonderia Leopolda di Follonica. Come riesce a conciliare questo ruolo con l’attività di attore?
Anche questa è un’altra bella impresa, ma, come si può dedurre dalla risposta a proposito de “Il giovane favoloso”, sono piuttosto allenato. In questi cinque anni, a parte forse il primo, in cui il lavoro andava configurato, ho trovato il modo per stare in scena nei teatri italiani e approdare a Follonica ogni qualvolta il mio compito lo richiedeva.
Non ho mai mancato gli incontri con le associazioni culturali, artistiche e sociali della città, con le dirigenze scolastiche, con le realtà teatrali del territorio e neppure le convocazioni in giunta comunale per illustrare i programmi prima della dovuta approvazione politica e amministrativa. Del resto continuare a girare l’Italia con le varie tournée è stata una scelta, proprio per portare appresso a me il nome di Follonica e del Teatro Fonderia Leopolda.
Credo che questa scelta si sia rivelata giusta visto che, se all’inizio molti colleghi attori, registi, organizzatori mi chiedevano incuriositi dove fosse esattamente e cosa si facesse in “quel” teatro, oggi, tutti, ma proprio tutti coloro con i quali ho lavorato in questi anni e con cui continuo a lavorare, sanno esattamente dove sia quel teatro e cosa si faccia “lì dentro”, un posto che, a detta dei più, pare funzionare piuttosto bene. La “piazza” di Follonica è ormai ambita da molte compagnie teatrali italiane, e non solo. Il merito non è solo mio, ma chiaramente mi sento assai lusingato.
Se dovesse descrivere Follonica con tre aggettivi quali sceglierebbe?
Sto al gioco e scelgo: sorprendente, prodigiosa, magnetica. Ma Follonica è tanto di più, e tanto di più sono le molte persone che ho incontrato in questi anni, prime fra tutte Barbara Catalani e Andrea Benini, per i quali non devo certo aggiungere altro, vista la stima che nutrono da parte di tantissima gente.
Ma dai dirigenti e funzionari comunali ai ristoratori e albergatori, dagli insegnanti ai responsabili della Pro Loco e della Protezione Civile, dalle studentesse e dagli studenti ai loro genitori, dai membri delle associazioni culturali alle migliaia di spettatori presenti al Teatro Fonderia Leopolda, ogni volta questa città mi ha sorpreso per la sua forza, per l’alto quoziente di lealtà delle persone, per la chiarezza dei loro pensieri, per la gentilezza pur nella durezza: ecco perché prodigiosa e magnetica.
Forse è la terra toscana ad essere così, ma Follonica mi ha sorpreso subito: quasi ogni giorno trascorso in città, questa mi ha rivelato qualcosa che non conoscevo e neppure immaginavo che esistesse. Poi quando scopri che in un fazzoletto di terra sono nati o ci vivono e lavorano artisti come Vanessa Incontrada, Stefano “Cocco” Cantini, Sasha Naspini e tanti altri prestigiosi uomini e donne del mondo del lavoro, della cultura, dell’arte, dell’impegno sociale, della politica e quant’altro, allora vuol dire che questa città è speciale. E quando dimentichi tutto questo, giri lo sguardo e in un attimo c’è il mare che sembra essere lì solo per te. Se Greta Garbo si fosse chiamata Follonica, avrebbe avuto lo stesso fascino.
Vittorio Gassman diceva “ Il teatro è una zona franca della vita, lì si è immortali”: cosa si sente di dire al riguardo?
Sì, forse è vero, ma direi che più che esserlo, ci si sente immortali. L’arte del teatro è effimera, e allora noi attori sogniamo una durata della nostra arte che assomigli all’eternità della pagina scritta, del quadro dipinto, dell’immagine su celluloide, ma non è così, almeno così penso io.
Ho avuto la fortuna e l’onore di trovarmi a tu per tu con Vittorio Gassman in due occasioni, a metà degli anni ottanta, ma non ebbi mai l’opportunità di vederlo in azione dal vivo. Gassman allora era già avanti con gli anni, ma la sua vitalità sul palcoscenico, di cui comunque si sapeva, e la sua collocazione tra gli dei dell’olimpo dello spettacolo mondiale, anche per via di una bellezza e di una prestanza davvero uniche che potei testimoniare di persona, avrebbero fatto pensare all’immortalità concessa all’uomo dal suo essere, in teatro, la trasfigurazione del divino, soprattutto quando lo “stato di grazia” ti permette di dilatare a dismisura ogni passaggio della tua espressione al punto che ogni atto artistico si traduce in esperienza umana unica e irripetibile per chi ha la fortuna di assistervi.
Tuttavia credo sia importante per l’attore coltivare la consapevolezza della propria mortalità, che tradotto vuole dire: consapevolezza dei propri limiti umani e artistici. Solo così, credo, si mantiene costante la forza della propria presenza sul palcoscenico e del proprio presente nella società la quale, peraltro, è proprio lei a stabilire le regole della nostra eventuale “immortalità”.
In realtà penso che in un mondo come il nostro, in cui bruciamo ogni nuova esperienza in pochi attimi, la sensazione è che il “tutto” venga regolato da un timer imperdonabile che si chiama Tempo.
Mi si perdoni l’irriverenza , ma penso che Iddio, in quanto eterno, di questi tempi e forse per tanti altri altri ancora, dovrà darsi un gran da fare per farsi riconoscere dagli uomini e soprattutto farsi rispettare in quanto datore di luce.
Io, in questa oscurità, preferisco riflettere sulla “leggerezza” di Cyrano e, nella ricorrenza dei duecento anni dell’”Infinito” di Leopardi, misurarmi umilmente col tema dell’immensità.
Se poi tutto ciò non riuscisse a consolarmi, allora, come dicevo poc’anzi, basterà puntare lo sguardo verso la parte più luminosa della Maremma e il doloroso “naufragar” dei miei pensieri apparirà più dolce in quel suo mare.
La nostra chiacchierata si conclude qui ma vi posso assicurare che su queste parole ci rifletterò spesso.